C’era da aspettarselo. Che chiedesse scusa. Che lo sansebastianizzassero. Che lo difendessero a spada tratta. Che cercassero precedenti nelle star. Che si rendessero conto della differenza tra Blanco e le star che, oltre a distruggere (e minimo 30 anni fa), sapevano anche cantare ed esibirsi e davano al loro pubblico motivi per ricordarsene e parlare di loro, indipendentemente da quelli che restavano sempre e comunque scivoloni sgradevoli.
Blanco l’ha fatta fuori dal vaso. Dal vaso di rose per l’esattezza. Che sono il simbolo della città che lo ha reso celebre, che lo ha invitato come superospite per la seconda volta, che con le rose ci campa gli altri 360 giorni l’anno. E si è scusato. Se si sia vergognato non lo sappiamo e non lo sapremo mai. Amadeus, che invece che cazziare lui, ha cazziato il pubblico invitandolo a moderare i fischi, ci ha tenuto a precisare che ieri il ventenne ha chiesto scusa a lui “come conduttore e a Sanremo”.
E ora siamo noi a dover chiedere scusa a lui. Perché se Blanco è Blanco è anche un po’ colpa di chi voleva impiantare su un sedicenne un po’ di qua un po’ di là una storia di riscatto, dove la musica è un mezzo, non un fine, senza spiegare al sedicenne che poi a un certo punto avrebbe dovuto meritarsela la fama che gli era piombata addosso, in modo particolare quando sarebbe cresciuto. Meritarsela studiando, diventando bravo come artista prima ancora che come personaggio, crescendo artisticamente non solo come numero di follower, mettendo su quell’autonomia di pensiero che consente di comprendere se una performance sopra le righe può essere un boomerang, non solo un modo per accrescere la fama.