“Blocco navale nei porti di partenza e le ong straniere non vengano da noi”
Gli hotspot sono al collasso e l’Italia si trova ancora in prima linea nell’affrontare una nuova emergenza migranti. Un problema che parte da lontano e per cui serve un intervento “massiccio”. A dirlo è l’Ammiraglio di divisione (r) Nicola De Felice: “Serve una collaborazione tra l’Unione Europea, l’Italia e i Paesi del nord Africa per un intervento a tutto campo di interdizione navale e di creazione di hotspot sul territorio africano”.
Ammiraglio, siamo di fronte a una nuova emergenza. Come siamo arrivati a questo punto?
“Al principio, ci sono delle forze che spingono all’immigrazione clandestina di massa che – in buonafede o malafede – convergono verso un concetto neoliberista e turbocapitalista che pretende di sostituire la delocalizzazione delle imprese con l’azzeramento delle distanze tra la manodopera a basso costo e i centri di consumi occidentali”.
In oltre 15 anni l’Europa non è arrivata a una soluzione. Perché?
“L’Europa se ne infischia. L’Italia è sola a combattere l’invasione che deve essere risolta in Africa e non ai confini esterni dell’Europa. Oltre alle iniziative con decreti attuativi nazionali per difendere le nostre acque territoriali dall’immigrazione illegale serve impegnarsi in Africa per risolvere il problema della tratta degli esseri umani”.
Ci spieghi meglio.
“Si dovrebbe prevedere un intervento a tutto campo di interdizione navale delle imbarcazioni che intendono lasciare le coste tunisine o libiche, attraverso un pattugliamento congiunto nelle rispettive acque territoriali dei due Paesi del nord Africa, con il consenso dei governi riconosciuti dall’Onu. Una collaborazione tra l’Unione Europea, l’Italia e i Paesi del nord Africa uniti in una cooperazione massiccia che preveda il pattugliamento congiunto nelle acque territoriali libiche e tunisine e un’attività di potenziamento della sorveglianza costiera. Insieme, anche, all’istituzione di hotspot in Africa gestiti e finanziati dall’Onu e quindi in una cornice di sicurezza delle forze europee e non lasciati nelle mani dei locali, per evitare che attraverso corruzione e malcostume locale la situazione possa degenerare. Da questi hotspot, gestiti appunto in Africa, prelevare chi ha diritto all’asilo politico e alla redistribuzione in Europa, mentre prevedere il rimpatrio volontario – o forzato – di chi invece non ha diritto”.
Difatti, in Tunisia l’emergenza è evidente e anche il governo ha annunciato aiuti. Come si dovrebbe intervenire?
“Sì. Si parla di un finanziamento di 1,9 miliardi che la Banca Mondiale, attraverso il Fondo Monetario Internazionale, dovrebbe fornire a questa iniziativa possibilmente gestita dall’Europa – ma se non fosse possibile anche dall’Italia stessa – in collaborazione con la Tunisia che ha necessità di ricevere questi fondi per rilanciare l’economia interna. Quindi dare una mano sul posto, collaborare e verificare che il denaro sia investito bene in funzione della ristrutturazione del sistema Paese tunisino. La presenza italiana è fondamentale affinché i fondi siano spesi bene. Mi lascia ancora sorpreso come che la Banca Mondiale sia restia a fornire fondi con la scusa di non avere una situazione non democraticamente definita, ma è un freno insensato di fronte a un’emergenza che è evidente”.
L’Italia è in parte intervenuta con il Decreto sulle Ong. Ha avuto risvolti positivi?
“Qualcosa ha funzionato. Abbiamo la Ong Louise Michel ferma a Lampedusa che ha commesso gravi infrazioni. Perché se la nave Ong non si attiene alle regole internazionali e alle regole emanate dal nostro ministero dell’Interno deve pagare pegno e fermarsi amministrativamente. La nave ha imbarcato persone in zone di competenza non italiane, ha avuto la direttiva da parte della nostra Guardia Costiera di indirizzarsi verso Trapani, ma poi ha fatto recuperi in acque maltesi – contro le direttive italiane – e si è dovuta ridirezionare verso Lampedusa. I secondi imbarchi sono stati d’intralcio a delle direttive e alle attività della Guardia Costiera italiana e così ha commesso due reati”.
Si poteva fare di più, con il decreto?
“Sì, verso gli stati di bandiera di queste Ong. In particolare, verso la Germania, che è lo stato delle navi di bandiera Sea Watch, Sea Eye e Louise Michel; della Norvegia che è stato di bandiera della Geo Barents e della Ocean Viking. Queste navi per diritto internazionale consolidato assumono giurisdizione del Paese dello stato di bandiera, sono territorio di quel Paese. Significa che quando avviene il primo passaggio dei migranti sul territorio europeo, questi si trovano sull’Ong, che è territorio del paese di bandiera, quindi la protezione internazionale e l’eventuale richiesta di asilo politico è di competenza di quelle nazioni. È competenza degli Stati di bandiera delle navi Ong”.
Significa che i migranti a bordo di quelle navi, dovrebbero sbarcare nel territorio di bandiera?
“Esatto. Così prevede il regolamento Ue di Dublino. La Norvegia, che ha navi attrezzate, potrebbe in cinque giorni arrivare ai propri porti e non rimanere per settimane in attesa di far sbarcare in Italia. Il regolamento di Dublino non si deve applicare solo all’Italia con gli sbarchi diretti, ma anche agli altri Paesi e anche alla Norvegia che anche se non fa parte dell’Ue ha firmato gli accordi. Occorrerebbe una linea diplomatica ben più determinata verso gli stati di bandiera di queste Ong per incastrarli nelle loro responsabilità”.
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