Attualità

Bomba ambientale, Todisco a Brescia rinviato a giudizio

di Ivano Tolettini -


È partito il conto alla rovescia per stabilire le eventuali responsabilità nella gestione della fabbrica dei veleni. A tre anni dai sequestri cautelari ordinati dal giudice Alessandra Abatucci va in scena al tribunale di Brescia, a partire dall’11 aprile prossimo, il processo per il “disastro ambientale consapevole” all’azienda chimica Caffaro Brescia, che come disse il procuratore capo Francesco Prete parlando all’opinione pubblica “è un carcinoma nel centro della città”.

È un grande inquinamento che si articola su 22 chilometri quadrati e che viene da lontano, perché il sito industriale di interesse nazionale di via Nullo, nel cuore della Leonessa d’Italia, è operativo da oltre un secolo, ma che l’ultima gestione avrebbe aggravato contravvenendo ai patti sottoscritti nel 2011 tra il commissario straordinario Marco Cappellotto (a giudizio con rito abbreviato ma per ipotesi di reato meno gravi) e i nuovi gestori dell’impianto del clorosoda. A rispondere di disastro ambientale, inquinamento da cromo esavalente e clorato ed omesso smaltimento di scorie pericolose è l’industriale pisano della chimica di base, Antonio Todisco, 67 anni, a capo di un impero con impianti produttivi oltre che in Toscana anche a Bussi sul Tirino (Pescara) e Cagliari, con ricavi per quasi mezzo miliardo di euro, assieme ai manager Alessandro Quadrelli e Alessandro Francesconi, i quali sarebbero stati i luogotenenti operativi di Todisco in terra bresciana. Con il terzetto davanti al tribunale è finito anche Vitantonio Balacco, anch’egli implicato nella gestione della Caffaro, ma non per l’ipotesi dell’inquinamento da cromo esavalente.

Detto che gli imputati proclamano la loro innocenza e daranno battaglia in aula per dimostrare la loro estraneità, al contrario la Procura vuole dimostrare che dal 7 marzo 2011, quando la New Co Brescia spa (poi Caffaro Brescia) presieduta e amministrata da Todisco fino al 2016 acquistava per 200 mila euro i reparti produttivi del complesso aziendale, subentrando come locataria per sei anni versando 30 mila euro l’anno di affitto, non sono state attuate le misure promesse per interrompere il disastro ambientale in essere, dunque aggravandolo. Così la chimica Caffaro Brescia, come scrivono i Pm, avrebbe dovuto garantire l’operatività del sistema di pompaggio dalla falda, garantendo “l’efficienza e l’efficacia” per prevenire l’inquinamento e mettere in sicurezza l’area, ma fino all’anno scorso quando la Procura lo impose non se ne fece quasi nulla. Del resto, per comprendere la complessità e gravità del fenomeno sono tre i tipi di inquinamenti interconnessi su cui si sono concentrati i consulenti: quello del suolo da cromo esavalente per la presenza di serbatoi e cisterne nelle aree denominate “A e B del reparto clorato”; quello delle acque superficiali a valle della fabbrica con lo sversamento dei veleni, tra cui Pcb, “con valori di centinaia di volte superiori ai limiti consentiti”; infine, l’inquinamento della falda con una propagazione “molto oltre il perimetro” del sito per problemi del pompaggio idraulico dei sette pozzi.

Le indagini secondo il gip Abatucci “dimostrano che Caffaro Brescia non ha ottemperato agli impegni assunti” e i suoi vertici si sono difesi “reiteratamente adducendo come alibi le problematiche ambientali causate dalla precedente gestione”. Le difese dei quattro imputati, infatti, hanno difeso questo bastione, anche se, come aggiunge il gip “ scegliendo di condurre la propria attività produttiva in via Nullo, hanno scientemente e volontariamente assunto la gestione di un complesso aziendale già gravemente compromesso, assumendosi al contempo l’impegno di contenere e non aggravare il pregresso disastro”. Vi è da dire che grazie allo storico impianto Todisco da grande grossista chimico è diventato un produttore di cloro di prima grandezza acquisendo un vantaggio competitivo nel panorama italiano della chimica di base, che gli ha consentito poi di rilevare a prezzi vantaggiosi dalla Solvay il sito di Bussi sul Tirino (Pescara), dove ha trasferito la produzione di Brescia, e l’impianto di Cagliari acquistato dall’Eni. Ottenendo importanti contributi pubblici: in Abruzzo 15 milioni da Invitalia. Ma questa è un’altra storia.


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