Brigatista irriducibile Di Lenardo e i suoi 43 anni di silenzio
Terni, carcere di massima sicurezza. Qui, in una cella che conosce il ritmo del silenzio e delle sbarre, vive da oltre quarant’anni Cesare Di Lenardo. Sessantacinque anni, due ergastoli da scontare, un nome che appartiene a un’altra epoca, ma che torna oggi nel dibattito italiano quando si discute di memoria, radicalizzazione e violenza politica. Perché lui è uno degli ultimi irriducibili delle Brigate rosse della prima ora, il brigatista che non ha mai accettato di piegarsi. Quarantatré anni dopo.
Da taliercio a dozier
A Codroipo, il paese friulano dove nacque nel 1960, pochi lo ricordano. All’epoca era “Cesarin”, il ragazzo taciturno che leggeva troppo e sembrava sempre in un altrove. Poi, a ventidue anni, scelse il nome di battaglia “Fabrizio” e entrò nella colonna veneta delle Br guidata da Antonio Savasta. Era il più giovane, ma fu quello che pagò il prezzo più alto. La vicenda che lo consegnò alla cronaca nera nazionale si consumò tra il 20 maggio e il 6 luglio 1981: il sequestro dell’ingegnere Giuseppe Taliercio, direttore del Petrolchimico Montedison di Porto Marghera. In quella fabbrica si respirava aria di conflitto sociale e rabbia operaia. Taliercio venne rapito e rinchiuso in una mansarda di Tarcento. Quarantasette giorni dopo, il suo corpo fu lasciato senza vita vicino ai cancelli dello stabilimento. La notizia giunse all’Ansa con una telefonata notturna: “Abbiamo giustiziato Taliercio”. A parlare era lui, Fabrizio. Neppure sei mesi dopo, la stessa colonna rapì a Verona il generale statunitense James Lee Dozier. Lo rinchiusero in un appartamento, sotto una tenda. La prigionia durò 42 giorni, fino al blitz dei Nocs il 28 gennaio 1982 a Padova. Sessanta secondi di irruzione, e l’ufficiale Nato fu liberato. Quella sera si scrisse l’inizio della fine delle Brigate rosse.
CATTURA E PRIGIONIA
Per Di Lenardo fu l’inizio di un’altra prigionia: quella vera, dietro le sbarre. Arrestato e processato, ricevette due ergastoli. Da allora non ha più visto il mondo da uomo libero. Non si è pentito, non si è dissociato, ha rifiutato la grazia ipotizzata da Carlo Azeglio Ciampi. I suoi compagni di allora hanno scelto strade diverse: pentitismo, collaborazione, reinserimento. Alcuni, responsabili diretti di decine di omicidi, sono da tempo in libertà. Lui no. Ha tenuto fede a una coerenza che oggi lo rende unico. La sua vita dietro le sbarre è stata scandita dai libri. Ha studiato letteratura antica, ha collezionato 30 e lode in serie agli esami ma non ha voluto laurearsi: “Non serve il riconoscimento dello Stato”. Le sue lettere sono esercizi di erudizione: citazioni bibliche, filosofia politica, rimandi al marxismo e alla destra cattolica americana. Una scrittura che molti definiscono “ottocentesca”, virtuosistica e garbata, specchio di un uomo che rifiuta di farsi ridurre a cronaca giudiziaria.
CARNE IN DEPOSITO
Ma è anche un alienato del tempo. L’ultima auto guidata fu una Fiat 127. La scoperta delle videochiamate lo lasciò senza parole: un uomo rimasto fermo al 1982, mentre il mondo correva altrove. “Carne in deposito”, ha scritto di sé. Una definizione crudele e insieme lucidissima: un corpo sospeso, prigioniero della scelta di non piegarsi. Il suo nome torna oggi nel dibattito italiano sulla violenza politica. Gli anni Duemila hanno visto il riaffiorare di nostalgie e pulsioni radicali, sia a destra che a sinistra. Attacchi contro sedi sindacali, aggressioni, cortei che degenerano, il ritorno di slogan estremi nelle piazze. L’eco del caso Cospito, con lo sciopero della fame del militante anarchico, ha riportato al centro la questione di come lo Stato debba rispondere alle derive estreme senza trasformarle in martirio. Allo stesso modo, gli assalti squadristi alle sedi della Cgil o i cori nostalgici durante le manifestazioni neofasciste dimostrano che la violenza politica non è un ricordo lontano, ma una minaccia carsica che riemerge quando il terreno sociale si indebolisce.
FANATICO COERENTE
Molti definiscono Di Lenardo un fanatico, altri un uomo coerente fino all’autodistruzione. Egli non ha mai riconosciuto le proprie responsabilità. Per gli studiosi è un frammento vivente della memoria repubblicana, un uomo che porta sulle spalle l’ombra di un’intera generazione perduta. Codroipo non parla di lui, Porto Marghera ha cambiato volto, Padova ricorda il blitz Dozier come un trionfo dello Stato. Ma a Terni, in una cella, resiste l’ultimo irriducibile. Forse morirà lì, ultimo fantasma di una stagione che l’Italia non ha mai davvero metabolizzato. E finché resterà vivo, il suo nome continuerà a evocare la domanda più difficile: che cosa resta della violenza politica quando la storia sembra averla sepolta, ma il presente continua a evocarla come una minaccia possibile? La sua parabola è un monito: la violenza ideologica non svanisce, muta forma, e torna a bussare ogni volta che le istituzioni e la società abbassano la guardia.
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