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Bobbio: “Pm e giudici, troppa fratellanza”

Il magistrato ed ex senatore Luigi Bobbio denuncia la comunanza culturale tra giudici e pm e avverte: “Serviranno due generazioni per cambiare davvero la giustizia, ma i primi passi sono stati compiuti”

di Anna Tortora -


La magistratura prigioniera di se stessa

C’è chi ancora finge di non vedere, ma la realtà è ormai sotto gli occhi di tutti: la magistratura italiana, da troppo tempo, è prigioniera di se stessa. A dirlo, con la franchezza di chi conosce la macchina giudiziaria dall’interno, è Luigi Bobbio, magistrato e già senatore della Repubblica.
La sua dichiarazione lucida, tagliente, inappellabile, segna uno spartiacque nel dibattito sulla riforma della giustizia e sulla separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri.

«Quante condanne pronunciate in processi indiziari sono frutto di una condivisione culturale, derivante dalla formazione comune, da parte del giudice del punto di vista del Pm?
Una cosa deve essere chiara: l’approvazione della legge sulla separazione delle carriere dei magistrati e la vittoria del SI nel prossimo referendum saranno solo il primo passo nella lunga marcia verso la normalità costituzionale del processo penale.
Troppo grande è stato, è e deve ancora essere lo sbilanciamento politico della corporazione giudiziaria, pm e giudici, nel contrapporsi incostituzionalmente alla riforma ed è quindi normale, purtroppo, attendersi un rinsaldarsi dei legami corporativi e processuali tra le due categorie di magistrati che ad oggi ne fanno parte.
Ma soprattutto, sulla piena e immediata trasposizione della riforma in un sentimento naturale di estraneità tra giudici e pm peserà come un macigno l’attuale situazione che vede e continuerà a vedere in attività pm e giudici che continueranno a sentirsi ed essere fratelli, ancorché separati dalla nuova normativa.
Serviranno almeno due generazioni e la sostituzione dei magistrati attualmente in servizio con quelli finalmente provenienti da due diversi concorsi perché il cambiamento di identità si verifichi e si affermi. L’importante tuttavia, è che siano stati mossi i primi passi.»

Il significato politico e costituzionale della riforma

Un’analisi che va dritta al punto. Bobbio non parla di teorie astratte, ma fotografa con precisione chirurgica il nodo che tiene ferma la giustizia italiana: la comunanza culturale tra giudici e pubblici ministeri, frutto di una formazione identica e di una carriera costruita insieme.
Il risultato è sotto gli occhi di tutti: un giudice che spesso ragiona come un pm, un pubblico ministero che si sente protetto da chi dovrà giudicare il suo operato.
La riforma della separazione delle carriere, voluta dall’esecutivo, non è, come gridano le toghe progressiste, un attacco all’indipendenza della magistratura.
È, al contrario, il suo riscatto: il ritorno all’impianto pensato dai Costituenti, dove il giudice è arbitro e il pubblico ministero è parte, ciascuno con la propria dignità e la propria funzione.

Il coraggio del cambiamento

Bobbio non si illude che basti una legge. Parla di “due generazioni” per cambiare davvero il volto della giustizia. Una previsione amara ma realista: servirà tempo, servirà ricambio, servirà soprattutto che le nuove leve della magistratura nascano dentro due concorsi distinti, liberi da quella comunanza ideologica che oggi lega pm e giudici come “fratelli separati”.

La sinistra giudiziaria continuerà a opporsi, brandendo la solita retorica dell’unità delle toghe come garanzia di libertà. Ma la verità – quella che Bobbio ha il coraggio di dire apertamente – è che non c’è libertà senza distinzione dei ruoli.
Il passo decisivo è stato fatto: ora occorre portare fino in fondo una riforma che restituisca ai cittadini un processo davvero giusto, dove chi giudica non appartenga più, nemmeno culturalmente, alla stessa famiglia di chi accusa.

Perché la giustizia, quella vera, comincia quando finiscono le ambiguità.

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