Caso Paolo Mendico: le inchieste aperte e i docenti sotto indagine
Ci sono importanti sviluppi nel caso della morte di Paolo Mendico, il quattordicenne di Santi Cosma e Damiano (Latina) trovato senza vita l’11 settembre scorso. Oggi sono due le inchieste penali aperte: la Procura per i Minorenni di Roma indaga sui compagni di classe, mentre la Procura di Cassino ha aperto un fascicolo per istigazione al suicidio e omissioni. Nel frattempo, il Ministero dell’Istruzione ha concluso formalmente l’ispezione nella scuola frequentata da Paolo: l’Istituto Tecnico Industriale “Antonio Pacinotti”, sede distaccata di Santi Cosma e Damiano. L’ispezione ha portato all’avvio di contestazioni disciplinari nei confronti di tre docenti, accusati di non aver fatto il possibile per arginare gli episodi di bullismo. Il rapporto ministeriale non lascerebbe dubbi sull’interpretazione delle dinamiche: Paolo Mendico è stato vittima di bullismo sistematico e prolungato.
La ricostruzione
Per capire cosa accadde, gli inquirenti sono partiti dagli ultimi gesti di Paolo. Il ragazzino aveva preparato lo zaino per il giorno dopo, scritto sul diario le materie da portare, cenato con la famiglia e impastato il pane. “Era tranquillo”, racconta il padre. Forse aveva già deciso di farla finita. Magari sperava ancora che qualcuno, all’ultimo momento, gli riservasse quel banco in prima fila — un posto sicuro, lontano dagli insulti -, ma quel banco Paolo non lo occupò mai. La mattina dell’11 settembre 2025 la famiglia trovò il corpo senza vita del ragazzo. Poche ore dopo, la prima campanella dell’anno scolastico suonava comunque. Il banco di Paolo rimase vuoto.
Una violenza iniziata anni prima
La storia di Paolo non comincia l’11 settembre, ma molto prima. In quinta elementare, un compagno gli puntò contro un cacciavite di plastica urlando: «Te devo ammazzare». I genitori denunciarono ai carabinieri, ma il caso fu archiviato. Alle medie gli insulti divennero quotidiani: “Paoletta”, “femminuccia”, “Nino D’Angelo” per i capelli biondi che amava portare lunghi. I compagni lo spingevano contro i muri. Le segnalazioni dei genitori finirono nel nulla. All’istituto tecnico, il copione si ripeté: chat satiriche, disegni offensivi con il suo nome sui banchi, note sul registro. “Scuola di m****”, ripeteva Paolo negli ultimi tempi. La famiglia presentò esposti, parlò con vicepreside e docenti, contattò l’assistente sociale. “Tutti coinvolti” dice oggi il padre Giuseppe. “Anche gli insegnanti di sostegno. E l’assistente sociale? Mai intervenuta”.
Il verdetto ministeriale
L’ispezione ministeriale, disposta dopo la lettera del fratello Ivan Roberto ha confermato quanto la famiglia denunciava da anni: Paolo fu vittima di bullismo. Tre docenti rischiano ora sanzioni disciplinari per “non aver fatto il possibile per arginare gli episodi”. La dirigente scolastica, Gina Antonetti, si difende. Una versione che stride con chat, note firmate dagli insegnanti e documenti presentati dalla famiglia. “Forse qualche nostro alunno ha fatto qualcosa che non doveva fare” ammette, “ma di sicuro la scuola non era al corrente”. Una giustificazione che apre interrogativi profondi: com’è possibile che una scuola non veda ciò che accade tra i propri muri?
Le responsabilità
In Italia, la legge anti-bullismo del 2024 impone alle scuole di intervenire: prima coinvolgendo le famiglie, poi segnalando alle autorità. Sulla carta tutto funziona. Nella realtà, Paolo Mendico si è ammazzato. Il problema non è l’assenza di norme, ma la loro sistematica inapplicazione. Non è ignoranza, ma complicità passiva: intervenire significa esporsi, creare conflitti, ammettere che nella propria scuola esista un problema. È più semplice minimizzare. “Paolo si lamentava solo del fatto che i compagni dicevano parolacce” sostiene la dirigente.
Una scuola che non protegge
Una testimone, residente a Santi Cosma e Damiano, scriveva su un forum: “Quella scuola ha altri casi, ne parlavo con la mamma di Paolo”. Il padre conferma: “Le stesse persone che hanno preso di mira Paolo fuori dalla scuola continuavano con altri ragazzi. In più occasioni sono intervenuti vigili e carabinieri”. Un episodio, raccontato dalla famiglia del ragazzino sintetizza tutto: alle elementari, durante un’aggressione, una maestra invece di fermare i bulli gridò “Rissa, rissa!”. Non separava. Non proteggeva. Incitava. È l’immagine di una scuola che, invece di difendere la vittima, diventa carnefice. Lo chiamano bullismo dei professori: lo sguardo che minimizza, la battuta che ridicolizza, la frase che giustifica. No. Non sono ragazzate. Sono violenze, e vanno chiamate col loro nome.
Le possibili soluzioni
Il problema non sono solo tre insegnanti negligenti. Il problema è un sistema che rende la negligenza la norma. Abbiamo bisogno di protocolli obbligatori e vincolanti con sanzioni chiare, un referente anti-bullismo in ogni scuola, formato e con potere d’intervento immediato, la tracciabilità di ogni segnalazione e una risposta documentata. Necessaria anche la formazione specifica per i docenti. Serve, come dice lo psicoterapeuta Alberto Pellai, che la scuola torni ad essere: “Un luogo emotivamente competente” dove il bullo non sia “il ragazzo che dà problemi” solo quando viene fermato, ma dal primo atto di violenza.
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