Editoriale

Che giorno è oggi

di Tommaso Cerno -

Tommaso Cerno


di TOMMASO CERNO

Sarà un Pride come un altro. Nel senso buono del termine. Manterrà quella dose di ribellione e di rivendicazione profonda di chi chiede un Italia migliore, che comporta lo scontro con la politica in questo caso reso più semplice dalle posizioni di una parte del centrodestra.

Ma che ha punti di rottura e di distanza anche con la sinistra, e questa è una grande fortuna, perché la parlamentarizzazione della rivoluzione culturale porta sempre indietro. Lo dimostra il fatto che l’unica conquista reale sui diritti civili risale al Governo guidato da Matteo Renzi ed ebbe il voto anche del nuovo centrodestra di Angelino Alfano. Questo per dire che chi chiede all’Italia di avanzare deve rivolgersi al Paese intero, tenendo aperto il dialogo con la politica, e non rivolgersi alla politica perché parli al Paese.

Tutte le vere rivoluzioni si fanno per strada e l’Italia è molto più avanzata di chi la governa. Ecco perché oggi chi sfilerà al Pride mostrerà di esistere e di essere già parte della Comunità che chi siede nel Palazzo ha il dovere di rappresentare. Bisogna fare attenzione a due rischi apparentemente opposti ma in realtà molto simili fra loro. Il primo è dimenticarsi la natura universale dei diritti e pensare che questi diritti possano prendere la bandiera di un partito, qualunque esso sia.

Significa abbandonare il senso profondo della parola battaglia e confonderla con quel processo necessario di sensibilizzazione del legislatore che trova però la propria forza e anche il proprio limite nel cedere la rappresentanza non solo di una comunità come quella lgbt, ma anche di milioni di italiani che si riconoscono e a cui piace vivere in un’Italia più bella, più moderna, più semplice se vogliamo. Quella in cui tutti siamo uguali e ci comportiamo con gli altri allo stesso modo. Ed è qui l’errore che sta facendo il centrodestra.

Addirittura uno come il governatore Rocca che dentro quella coalizione rappresenta per esperienza personale e per curriculum uno degli esponenti più aperti alla dimensione della diversità e dell’uguaglianza, visto che ha guidato la Croce Rossa. Rocca in fondo è caduto in un tranello che non riguarda la comunità che oggi manifesta in piazza ma riguarda i suoi dirigenti, che fanno politica, che siedono in Parlamento, che vogliono andarci, che sono cioè disposti ad aderire a un’idea diversa da quella della libertà che promulgano per rappresentare l’Italia all’interno di una formazione politica, e non per rappresentare al governo, qualunque esso sia, le istanze che vengono da milioni di cittadini italiani che votano poi alle elezioni ognuno chi cavolo vuole.

Anche perché per fortuna di questo Paese una manifestazione non è autorizzata dalla politica, né dalle ragioni che la muovono, bensì dalla questura per normali ragioni di ordine pubblico e in questo i gay sono meglio degli alpini, hanno sempre riempito di festa e di gioia tutti i luoghi dove hanno sfilato. Quelli arrabbiati sono i capi, perché la loro missione non è cambiare l’Italia ma far parte di chi ha il diritto di cambiarla.

E’ così chiaro Rocca non serviva inventarsi un tiramolla sul patrocinio di una manifestazione a cui aderiscono centinaia di migliaia di persone non tutte uguali e non tutte legate alla stessa idea di futuro, non tutte d’accordo sulla piattaforma che le associazioni organizzatrici presentano al Parlamento, che ha il dovere di essere più avanzata possibile proprio perché il loro compito non è governare il Paese e rappresentare tutti ma gridare molto forte che cosa a loro giudizio manca perché l’Italia sia tra i paesi più avanzati del mondo.

Il problema è che nella storia non solo italiana, ma di tutte le democrazie che hanno conquistato sempre con grande fatica e a piccoli passi diritti che prima venivano negati, improvvisamente sono invece diventati diritti naturali ciò che ha reso tutto questo possibile: da un lato la lotta, sacrosanta e meravigliosa, dall’altra la dialettica. Non può esistere la necessità dell’umanità. Non è nel senso profondo delle democrazie che tutti siano d’accordo su tutto. E se oggi quindi tante persone sfileranno per un ideale, sanno nel loro cuore che devono gridare forte ciò che vogliono ma che per ottenerlo devono aprire con la stessa forza con cui aprono la bocca anche le orecchie, per ascoltare il Paese che li supporta e anche il Paese che fa domande, e perfino il Paese che dice di no. E’ solo così che i diritti diventano materialità.

Altrimenti il rischio è che restino bandiere da sventolare alle elezioni e nelle piazze dove siamo tutti d’accordo. Creando un muro e non un ponte con quella parte degli italiani che non hanno nulla contro gli altri ma che magari non sono arrivati fino a lì, che hanno bisogno di capire, che hanno bisogno di ascoltare a loro volta chi la pensa in modo diverso. E’ questo che è venuto a mancare nel rapporto tra politica e associazioni dei diritti.

La dialettica anche feroce che è sinonimo di dinamica e di progresso. Sostituita troppo spesso da uno scontro sordo fra verità assolute, che lasciano affascinati pezzi diversi di Paese, rendendoli più distanti e non più vicini, e allontanando quindi l’obiettivo finale che non è quello di dire ad alta voce chi sei ma di conquistare quella maggioranza che farà diventare storia il tuo ideale.


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