Editoriale

Che sono andati a fare a Kiev?

di Alessandro Sansoni -




Al termine dell’intensa giornata di ieri, dopo aver sentito la conferenza stampa dei tre leader europei in visita a Kiev, il dubbio non si è sciolto. Non è chiaro, infatti, cosa siano andati a fare Draghi, Macron e Scholz in Ucraina.

Comunque la si giri, al di là dell’”alto valore simbolico” dell’appuntamento, un summit così importante, che vedeva la presenza dei tre capi di governo dei principali paesi dell’Unione Europea, avrebbe dovuto produrre qualcosa di decisivo. E invece non sembra essere venuto fuori nulla di sostanziale.

Forse c’era una ragione se l’altro ieri il governo tedesco ha tardato tanto prima di confermare il viaggio.

Chi sperava che l’incontro avrebbe potuto produrre passi in avanti decisivi sul fronte diplomatico, o addirittura l’apertura di un negoziato di pace (o quantomeno di cessate il fuoco), ha dovuto subito accantonare le proprie chimere.

Perché di chimere si tratta: l’Europa non è in condizione, né con l’Ucraina, né con la Russia, di forzare la mano ed esercitare un’efficace mediazione, nonostante rappresenti il “prossimo vicino” del conflitto e subisca le maggiori conseguenze negative dal regime sanzionatorio.

Ma la delusione deve aver colto anche chi immaginava che la visita avrebbe sortito risultati significativi sull’altro tema all’ordine del giorno, ovvero il riconoscimento all’Ucraina dello status di paese candidato ad entrare nell’Unione Europea.

Draghi su questo è stato chiaro, parlando con i giornalisti italiani: i tre “grandi” hanno assunto l’impegno a sostenere la candidatura, ma non hanno garantito che il riconoscimento ci sarà, perché nel Consiglio Europeo siedono 27 Stati con diritto di veto ed esiste la possibilità che qualcuno lo eserciti, negando lo status all’Ucraina.

Di questo dettaglio tutt’altro che insignificante se ne sono accorti anche a Kiev: in un’intervista all’AdnKronos il direttore del “Kiev Post”, Bohdan Nahaylo, rimarcando gli aspetti controversi della circostanza, ha definito la visita come “una sorta di espiazione” da parte della leadership UE: da una parte gli “indugi” tedeschi sulla consegna delle armi, dall’altra le dichiarazioni del presidente francese che invitavano a non “umiliare” Putin.

In questo discorso non rientra l’Italia, per la quale “c’è molto apprezzamento a Kiev”, al punto che Nahayo ha definito il presidente del Consiglio “nostro stretto alleato”.

Insomma, l’Europa sarebbe andata a Kiev ad “espiare”. Nulla di più. Ed è stato proprio l’Italia ad esercitare pressione affinchè il rito si compisse, tanto è vero che il nostro governo ha fatto da apripista a questa iniziativa. D’altronde il nostro paese si è discostato sin dai primi giorni del conflitto dalle posizioni, decisamente più caute, della Francia e della Germania, sia nei toni delle dichiarazioni sia in tema di sanzioni e di riconoscimento della candidatura dell’Ucraina a membro UE.

Potremmo dire che l’Italia ha portato a casa un successo diplomatico ieri, trascinando Parigi e Berlino sulle sue posizioni, ma non uscirne bene è l’Unione Europea che appare sempre più spaesata, al punto da negare perfino sé stessa.

Sono in molti ad osservare che l’Ucraina è piuttosto lontana dagli standard richiesti per diventare anche solo paese candidato ad entrare nell’Unione, al punto che perfino le particolari circostanza in cui si trova non consiglierebbero l’accoglimento della domanda. E se poi in Consiglio qualcuno pone il veto? La confusione a Bruxelles aumenterebbe. E se invece lo status viene riconosciuto, senza alcuna contropartita significativa, quale valore avrà in futuro fare parte del club europeo?

Alessandro Sansoni


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