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Ciao, Adriano: col Monza agli americani finisce il berlusconismo nel calcio

Con la cessione del Monza agli americani. Senza Berlusconi Galliani lascia il club: una storia che adesso diventa leggenda

di Giovanni Vasso -


Quasi in sordina, per paradosso che a qualche anima malmostosa ricorderà il contrappasso dantesco, è finito il berlusconismo nel calcio. Il Monza, ora in B, è passato agli americani, come mezza Serie A e metà del calcio professionistico nazionale. Adriano Galliani, in punta di piedi, saluta e se ne va. Più che simbolo, il Condor è stato l’ultimo testimone del calcio secondo Silvio Berlusconi. Una grande rivoluzione che ha impattato, e molto, sulla vita quotidiana degli italiani e su quella pubblica del Paese, nell’immaginario di una nazione. Una storia lunga decenni, iniziata negli anni ’80. Fatta di vittorie, di celebrazioni, di fanfare. E finita solo adesso, con gli eredi che si son stufati di sperperare denaro per lo “sfizio” del pallone.

Il berlusconismo nel calcio è finito come è iniziato

Nel segno dei soldi. E non sia detto con il solito approccio bacchettone e moralistico. Chi non l’avesse vista, recuperasse la serie The English Game, su Netflix. Silvio Berlusconi s’è presentato nel mondo grigio e compassato del pallone scendendo da un elicottero. Rilevò il Milan che in quegli anni se la passava male. Lo portò in vetta all’Europa. Più e più volte. Facendo tutto quello che un tifoso sogna dalla sua società: investimenti, soldi, visione. Per essere i più forti, occorre comprare i più forti. Proprio il Milan, all’inizio degli anni ’90 quando ancora le maglie andavano dall’1 all’11 portò in Italia il concetto di turnover. Del resto, se hai in squadra gente come Van Basten, Gullit, Papin, Marco Simone, Daniele Massaro, Dejan Savicevic e via discorrendo qualcuno dovrà pur sedersi in panchina.

Soldi, soldi, soldi

Tanti soldi, tanti successi. Immenso ritorno. Forse non economico dato che, negli anni ruggenti, a vincere la Champions League anzi la Coppa dei Campioni non è che si guadagnasse granché. In quegli anni, il Milan compra e vince, costringendo gli altri top club a spendere per stare al passo. È stato (anche) grazie a Silvio Berlusconi se, che tempi!, la Serie A diventò il campionato più bello del mondo. Adriano Galliani era lì. A reggere le sorti del club, a fare mercato, a viaggiare in lungo e in largo per l’Europa. Accompagnando la squadra, cercando i dirigenti (e i calciatori) delle altre squadre per convincerli ad accettare offerte faraoniche. Era il berlusconismo applicato al calcio: lustri, pajette, vittorie, soldi. Joie de vivre. Poi, però, qualcosa si è rotto.

Arrivano i russi (e pure gli sceicchi)

Quando Roman Abramovic comprò il Chelsea iniziando a spendere come un forsennato, lo presero per un pollo da spennare. La stessa cosa, anni dopo, accadde quando gli sceicchi Mansour presero il Manchester City e quando, in Francia, la famiglia qatarina degli Al Thani comprò il Psg. Il solito sorrisino di sufficienza, il piglio di chi la sa più lunga degli altri. E che finisce, puntualmente, mazziato. Quando Silvio Berlusconi scese dell’elicottero, i più fecero spallucce. Quando i petrodollari (russi o arabi o da chissà dove) hanno fatto irruzione nel calcio europeo qualcuno sorrise. Sbagliarono tutti. Si è creata una rete solipsistica, o se volete una sorta di inflazione calcistica, per cui un buon mediano oggi costa quanto sarebbe costata, negli anni ’80, mezza Juventus (senza Platini). Un livello enorme, insostenibile. Persino per lui, per Silvio che il berlusconismo applicato al calcio l’aveva praticamente inventato. Si convinse a cedere la mano. Anche allora Adriano Galliani era lì. Era diventato mister “parametro zero”, cercava i migliori affari ai prezzi più convenienti e, va da sé, una tifoseria così ben educata e “viziata” come quella del Milan certe cose non le poteva più digerire.

Monza, Silvio reloaded

In Brianza, l’avvento di Silvio al Monza s’ebbe in circostanze travagliate. Il club stava fallendo. Chiesero a Berlusconi di impegnarsi. Lui lo fece e promise: “Vi porto in Serie A”. Una promessa che, a Monza, era quella di un risultato pari se non uguale al triplete in altri lidi, magari rossoneri. Per primo, Silvio chiamò Galliani. Che si convinse a tornare. Prima la C, quindi il ritorno in B. Al primo tentativo, il Monza non colse la promozione. In quella squadra c’era pure Balotelli, a proposito di vecchie fiamme milaniste. Un altro anno di purgatorio e poi il Paradiso. Il Monza aveva raggiunto la Serie A, missione compiuta, promessa mantenuta. Non era mai successo prima nella lunga storia calcistica dei brianzoli. Un altro successo, l’ennesimo, a puntellare una carriera da demiurghi del calcio. Silvio e Adriano. Tutti e due. In Brianza, Berlusconi passa il buen ritiro calcistico. Fuori dalla pressione dei contesti “grandi”, ritrova smalto e visione. Il Monza sogna l’Europa. Poi, però, tutte le storie finiscono. Quella terrena di Berlusconi si esaurì in un giorno di giugno del 2023. La squadra resta di proprietà della famiglia ma agli eredi del Cav il calcio non interessa granché. Anche perché costa. E tanto. Il mandato è di vendere. Se ne occupa, ancora una volta, Adriano Galliani. Regge il club fino a oggi con l’annuncio ufficiale del passaggio di quote agli americani di Brandon Berger. Il calcio italiano, come il resto del Paese (ma non diciamolo troppo forte), è un affare ormai per fondi Usa. Il Condor se ne va. Finisce un’altra storia. Quella del berlusconismo, nel calcio. Resterà la leggenda.


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