Economia

I chip, l’Ai e il G7: la Cina e la guerra dei mondi

di Giovanni Vasso -

epa09709869 People wearing face masks walk pass the Bing Dwen Dwen, the Beijing 2022 Winter Olympic Mascot and Shuey Rhon Rhon, the 2022 Beijing Winter Paralympic Games Mascot, in Beijing, China, 26 January 2022. The Chinese mainland on 25 January recorded 24 locally transmitted COVID-19 cases, the National Health Commission said on 26 January 2022. EPA/WU HONG


La Cina lancia una nuova offensiva sui chip mentre il G7 si prepara a fronteggiare il dumping asiatico tessendo una rete globale contro le pratiche commerciali al ribasso. La guerra dei mondi è appena iniziata e durerà per molto tempo ancora. La notizia più importante, sotto il profilo strategico, è arrivata nella mattinata di ieri quando Pechino ha annunciato la volontà di investire qualcosa come 47,5 miliardi di dollari per farsi i “suoi” chip ad alte prestazioni. Più che una sconvolgente verità, una reazione “telefonata” da parte del Dragone che, nelle scorse settimane, s’è vista chiudersi in faccia, per l’ennesima volta, le porte delle aziende americane e occidentali specializzate nella produzione di materiale hardware d’avanguardia. Il muro Usa, che nei mesi scorsi ha pure iniziato a scoraggiare l’acquisto e l’utilizzo di chip dalla Cina per le infrastrutture digitali strategiche, ha convinto Pechino a far da sé. Così il governo cinese ha messo sul piatto 344 miliardi di yuan per iniziare il suo programma ai semiconduttori. Che potrebbe portare la Cina a produrre da sé i chip di uso “quotidiano”, quelli utili ai prodotti di più largo consumo, e quelli ad alte o altissime prestazioni per consentire ai ricercatori e investitori asiatici di proseguire i loro programmi verso l’intelligenza artificiale. Contestualmente, lo sviluppo “autarchico” della tecnologia aiuterebbe la Cina stessa a uscire dalla dipendenza strategica dalle grandi major occidentali ponendo così il Dragone in una posizione di concorrenza vera nella gara al primato digitale mondiale contro gli Stati Uniti. Anche perché Pechino controlla le filiere di molte delle terre rare mentre l’Occidente, Europa in testa, si sta svegliando soltanto adesso.
Quello che colpisce l’osservatore europeo non troppo scafato è l’enorme quantità di denaro che Xi sta mettendo sul piatto per costruire il Big Fund, il veicolo statale per finanziare la ricerca sull’hardware digitale. Roba da 47,5 miliardi. E pare che sia solo l’inizio. È più di quanto, a settembre 2023, sia riuscita a mettere sul tavolo l’Unione europea con l’obiettivo di darsi, se non un campione continentale, quantomeno una produzione “propria” nel campo di chip e semiconduttori dopo il tremendo shortage post-Covid che aveva letteralmente paralizzato l’industria, specialmente quella automobilistica. L’Ue, dopo aver annunciato l’investimento di 50 miliardi si è “fermata” a 43 miliardi. Meglio che nulla, ma troppo poco. E, comunque, fuori tempo massimo dal momento che, nonostante la buona volontà, i sussidi garantiti dall’Inflaction Reduction Act Usa di Joe Biden hanno drenato investimenti e progetti europei per i grandi player del settore. A cominciare da Tmsc che, dopo aver preso in considerazione l’idea di investire in Germania, ha scelto di virare sugli Stati Uniti per “tutelarsi” dalle conseguenze di un’eventuale scossone nell’Indo-Pacifico. Già, perché Tmsc è di Taiwan e non è certo (o, almeno, soltanto) per questioni ideali se Pechino punta a riassorbire la cosiddetta “isola ribelle”.
Intanto, l’Occidente prende delle contromosse. Perché la guerra dei mondi non è (solo) digitale. Anzi. Il G7 ha deciso di fare massa critica, una volta tanto. E di farlo contro il dumping, la concorrenza spietata, al ribasso, dei player economici e produttivi cinesi. In un documento, il G7 ha messo nero su bianco la volontà di “promuovere un dialogo nel G7 tra i ministeri competenti sulle tendenze globali, le risposte politiche e le loro implicazioni” coinvolgendo Fmi e Ocse. “Pur riaffermando il nostro interesse per una collaborazione equilibrata e reciproca, esprimiamo la nostra preoccupazione per l’uso generalizzato da parte della Cina di politiche e pratiche non di mercato che minano i nostri lavoratori, le nostre industrie e la nostra capacità di ripresa economica”, si legge nella nota finale dell’ultimo summit dei Sette grandi. “Continueremo a monitorare i potenziali impatti negativi impatti negativi dell’eccesso di capacità e prenderemo in considerazione l’adozione di misure per garantire condizioni di parità, in linea con le norme dell’Organizzazione Mondiale del Commercio”. Inoltre, il G7 si ripromette di verificare e vagliare le condizioni di lavoro praticate in Cina. Insomma, se non è una dichiarazione di guerra, ci manca davvero poco. La via è segnata: la globalizzazione, almeno per come la conoscevamo, è finita.


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