Attualità

Cinque film, cinque volti: l’Italia che piace al Lido

di Ivano Tolettini -


Con Un film fatto per Bene di Franco Maresco che merita di essere visto, si è chiuso il quintetto italiano in concorso. Dopo La grazia di Paolo Sorrentino, Elisa di Marco Bellocchio, Sotto le nuvole di Gianfranco Rosi e Duse di Pietro Marcello, l’opera di Maresco ha portato una nota dissonante, corrosiva, quasi apocalittica. È l’Italia che si guarda allo specchio attraverso forme e linguaggi diversissimi, ma accomunati dal tentativo di non lasciarsi inghiottire dall’omologazione.
Sorrentino, con La Grazia, ha inaugurato il festival consegnando a Toni Servillo il ritratto di un Presidente della Repubblica diviso tra fede e responsabilità istituzionale. Un film classico nella forma, solido nella scrittura, che ha dato il tono alto del cinema d’autore italiano: una riflessione morale e politica che dialoga con l’attualità senza cadere nella caricatura.
Di Costanzo con Elisa ha scelto invece la via del dramma familiare, il racconto intimo di una figlia, delle memorie e delle ferite che si tramandano. Una regia di mestiere e intensità, capace di muoversi tra memoria privata e conflitto collettivo, confermando la sua capacità di restare contemporaneo pur restando fedele ai propri temi.
Rosi con Sotto le nuvole ha spostato l’asse sul terreno del documentario creativo. Dopo i rifugiati, il Papa e le frontiere della guerra, qui affronta la precarietà climatica e sociale, componendo un film-saggio che attraversa immagini d’archivio e testimonianze. Rosi ribadisce il suo ruolo di coscienza civile, anche a rischio di una certa autoreferenzialità.
Marcello con Duse ha portato sullo schermo il ritratto della “Divina” affidato a Valeria Bruni Tedeschi. Non una biografia tradizionale, ma un’opera che cerca di restituire la materia viva dell’arte e della fragilità. Marcello conferma la sua vocazione a intrecciare cinema e memoria culturale, con un linguaggio che sa mescolare documentario e invenzione, ricerca storica e libertà espressiva.
Infine Maresco, con il suo quasi film, ha demolito ogni certezza. L’opera su Carmelo Bene diventa un autoritratto ironico e disperato, un film che non si conclude ma che usa il fallimento come gesto artistico. È anche un atto di rabbia, una forma di resistenza che restituisce al pubblico l’inquietudine di un autore incapace di rassegnarsi. Ma in sala si ride anche di gusto.
Messi insieme, questi cinque film compongono una mappa dello stato di salute del cinema italiano. C’è la solidità istituzionale di Sorrentino, la coscienza civile di Rosi, la ricerca culturale di Marcello, la rabbia iconoclasta di Maresco, lo stile rigoroso di Leonardo Di Costanzo. Non un quadro omogeneo, ma una pluralità di voci che testimonia vitalità e rischio. Il nostro cinema esce dalla Mostra, ben diretta come di consueto da Alberto Barbera, con un profilo chiaro: radicato nell’autorialità, capace di misurarsi con temi universali e insieme col presente. Non sempre riesce a innovare sul piano formale, ma trova energia nella varietà. Sono film che chiedono allo spettatore attenzione, fatica, partecipazione. In un panorama internazionale dove spesso domina il linguaggio seriale e la semplificazione, l’Italia ha portato in concorso opere che non cercano il consenso facile. Il loro valore sta in questa resistenza: nel ribadire che il cinema d’autore italiano non è esaurito, ma continua a interrogarsi e a interrogare. Venezia lo ha mostrato: non c’è una sola via, ma tante traiettorie che, pur tra fragilità e ossessioni, confermano che il cinema italiano resta vivo.


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