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Come la pandemia ha cambiato l’informazione: intervista a Piero De Chiara

di Redazione -


 

Intervistiamo Piero De Chiara, esperto di comunicazione e dirigente di reti televisive. Ex funzionario dell’AgCom, da sempre impegnato nei progetti di riforma del Servizio Pubblico radio-televisivo. Dopo una informazione dominata dal tema della pandemia, una guida per comprendere meglio cosa è cambiato e cosa cambierà.

 

Con le misure di lockdown, milioni di italiani si sono trovati giocoforza a casa, e ciò si è tradotto in una crescita rilevante dell’audience televisivo, in particolare della fascia di prime time. Per i Tg delle reti generaliste si è tornati agli ascolti di 10-11 anni fa, quando un pubblico di 20 milioni o più non era una rarità, bensì la norma. L’aumento dell’audience in questa fascia è stato, in proporzione, sensibilmente maggiore rispetto a quello che interessato le rispettive reti, sia del Servizio Pubblico che di Mediaset. A cosa la si deve, questa differenza?

È stato un misto. Un po’ il lockdown ha ri-omogeneizzato gli orari delle famiglie, in giornate scandite dai bollettini della protezione civile. Naturalmente questo aumento è stato dovuto in gran parte all’interesse oggettivo verso le notizie per tutte le fasce di pubblico, quale che fosse l’età, il livello di reddito e di cultura. C’è stata una grande fame d’informazione.

 

In questa difficile fase c’è qualche merito specifico che possiamo riconoscere all’informazione televisiva, o più in generale alla tv generalista? 

Quello di esistere. Perché il fatto che esistano ancora in questa fase, seppure indeboliti, mezzi di comunicazione universali che si rivolgono potenzialmente a tutta la popolazione, è stato un elemento veramente utile. E questo anche a prescindere dalla qualità dell’informazione.

 

Si è dunque ricreata una platea unificata, nei confronti della quale la televisione ha offerto quella che gli studiosi della comunicazione chiamano una “shared cultural experience”. Quali insegnamenti il Servizio Pubblico può trarre da questa esperienza? E che dire delle reti commerciali?

Bisogna riflettere sulla coesione sociale. Negli scorsi anni, insieme ad altri, tra cui Francesco Siliato e Stefano Balassone, ho avviato un lavoro di ricerca i cui risultati sono poi confluiti nel contratto di servizio della Rai, e che la obbligano di dotarsi di un “indice di coesione sociale”. Cosa che, come tante altre, non è ancora avvenuto, ma che sarebbe prevista nel contratto di servizio. La pandemia ha prodotto un rafforzamento della coesione sociale, che ha portato tutte le fasce d’età, reddito ed istruzione a condividere gli stessi programmi, ed in particolare quelli informativi. Si è così dimostrato che la coesione sociale è difficile, ma la si può stimolare. Quanto alla tv commerciale, credo che con la fine dell’epidemia questa tornerà a privilegiare i target tradizionali, e quindi a concentrarsi su elementi di “dispersione sociale”. Il Servizio Pubblico dovrebbe fare l’opposto, ma perché ciò avvenga c’è bisogno di incentivi. Se l’obiettivo rimane quello di massimizzare gli ascolti, come avviene per le tv private, il Servizio Pubblico continuerà a produrre proposte “per vecchi”. Per invertire questo trend penso che una parte del canone dovrebbe essere dedicato all’indice di coesione sociale, ossia alla capacità di tenere insieme pubblici diversi. Non va valorizzato solo l’audience, ma l’obiettivo della coesione del pubblico.

 

Nei primi mesi della pandemia il pubblico della tv generalista è assai mutato. Guardando alle fasce d’età, c’è stato un netto aumento qualitativo tra le fasce d’età più giovani. A suo giudizio, questa crescita del consumo televisivo da parte degli italiani tra i 25 ed i 44 anni – che forse si potrebbe anche descrivere come un “ritorno” – ha interessato anche il pubblico dei Tg di prime time, o il guadagno in ascolti va ricondotto a quella fascia degli over 60, che i telegiornali inquadrano come proprio target di riferimento?

Dai dati che anche l’Osservatorio Eurispes-Coris della Sapienza ha pubblicato, l’incremento maggiore in percentuale ha riguardato i giovani, le fasce da 15 a 45 anni. Gli spettatori più anziani erano già catturati dall’informazione di prime time. Certo, quando la pandemia finirà questo pubblico verrà disperso se non si trovano strategie per re-interessarlo e ri-motivarlo. Se i telegiornali puntano a tornare “quelli di prima”, il pubblico tornerà ad essere quello di prima, e le testate perderanno progressivamente le fasce più giovani. Aggiungo una cosa: sarebbe necessario scavare più a fondo nelle fasce auditel, rispetto ai classici indici 25-44. Proprio questa fascia comprende pubblici assai diversi, con giovani che vivono ancora con i genitori e quelli che vivono fuori casa, e che manifestano comportamenti diversi. Sono ancora molte le cose che possono emergere analizzando più a fondo questa straordinaria fase che stiamo affrontando.

 

Altro tema interessante è l’attendibilità dell’informazione. A suo giudizio il successo negli ascolti costituisce per l’informazione del primetime anche un riconoscimento della sua attendibilità? La tv è riuscita, in questa fase, a rappresentare correttamente la situazione della pandemia e a contrastare la circolazione delle fake news?

Nel complesso i telegiornali hanno svolto un buon lavoro. Ci sono però stati degli episodi discutibili, e qualche fake news è stata alimentata anche dai Tg. Mi viene in mente la ridicola ricerca del paziente 0 nelle prime settimane, o la pantomima sulle mascherine – che prima non servivano a nulla, e poi sono divenute indispensabili. E soprattutto va criticato l’uso molto provinciale che si è fatto dei dati, e che ha portato nel mese di settembre addirittura a parlare di un “modello Italia”, che chissà perché veniva messo a confronto con quello “europeo” o “mondiale”, e che ci porta oggi a leggere il vaccino come una gara fra regioni e tra nazioni. Come se un fenomeno come la pandemia si potesse gestire entro confini regionali o nazionali. Credo che nessuno sappia – o almeno nessun ne ha parlato – di come sta andando la campagna di vaccinazione in India o in Africa. È illusorio credere che se un numero sufficiente di italiani, di europei, si vaccinano, la pandemia scomparirà, quando è evidente che questo è un fenomeno di livello mondiale.

 

L’informazione, dunque, è vittima di un certo provincialismo…

Sì, ma la situazione resta nel complesso più che sufficiente, e l’informazione delle tv generaliste sta operando accettabilmente.

 

Con il varo del Next Generation Ue e la mutualizzazione del debito, l’informazione di prime time ha vissuto in tarda primavera e in estate una sorta di “innamoramento” nei confronti di Bruxelles. Durerà? Questa pandemia ci ha davvero reso tutti più europei, o lo scetticismo tornerà a prendere il sopravvento?

Come molti altri fenomeni, la pandemia ha accelerato un processo che è già in corso. La fase acuta dell’anti-europeismo era già in via di superamento. Ancora un anno e mezzo fa la maggioranza degli elettori italiani ha votato per partiti anti-europei. Oggi non lo farebbe, anche perché i 5 Stelle hanno cambiato opinione. Relativamente a quello che da noi chiamiamo Recovery Fund è evidente a tutti che l’operazione “europea” debba andare a buon fine. Non vorrei, però, che cominciassimo a sentirci “esclusivamente” europei. Il rischio è che il “mondo” sia un po’ scomparso, il che è paradossale di fronte alla pandemia e ad un’economica sempre più interconnessa. Va bene essere europeisti, ma pensare che l’Europa sia autosufficiente sarebbe un errore.

 

Tornando all’analisi dell’informazione, la pandemia ha “divorato” gli spazi dedicati a molti altri temi, che in passate stagioni si erano dimostrati centrali. Un caso particolare è poi quello dell’immigrazione: sotto il peso dei numeri del contagio sono, in qualche modo, spariti quelli degli arrivi, e lo stesso è avvenuto per l’attenzione verso ciò che accade sulle coste africane.

Come ho detto prima, il quadro dell’informazione televisiva è nel complesso positivo. La “scomparsa del mondo” oltre il Covid è qualcosa che però può compromettere anche quei temi di coesione generazionale di cui abbiamo parlato prima. I giovani sono spesso più interessati a quello che succede negli altri continenti, non solo nel Nord America ed in Europa. Si tratta di una occasione non colta: la pandemia poteva essere un’occasione per acquisire una prospettiva più ampia, ed “accorgersi” che 4 miliardi di persone abitano in Asia e più di un miliardo in Africa…

 

Anche quando si è parlato di altri continenti, penso al Sudamerica, tutto si è ridotto alla gestione della pandemia. Si è parlato molto del Brasile sul Tg5, ma solo per criticare la gestione dei contagi da parte di Bolsonaro, non dell’avvitamento antidemocratico di un grande paese.

Infatti. È mancato un quadro generale.

 

La cronaca nera, e soprattutto la “cronaca criminale” che storicamente occupa nelle scalette del primetime spazi rilevanti, dallo scorso febbraio è sostanzialmente svanita, eclissata da un altro genere di testimonianze: le voci dai territori, dei medici, degli imprenditori e poi ancora degli eroi del Covid, ed anche delle sue tante vittime. Queste storie sono state raccontate con il dovuto rispetto, o in alcuni casi c’è stata una qualche forma di miticizzazione o spettacolarizzazione?

L’informazione televisiva resta anche un po’ spettacolo. Ci sta un po’ di caratterizzazione delle vicende, e mi pare che – nel complesso – lo si è fatto con rispetto delle persone coinvolte. Un rispetto che, spero, possa rimanerci impresso ed accompagnarci nell’affrontare, finita l’epidemia, anche quei fatti di cronaca nera di cui parli. Sia chiaro, la cronaca nera è un genere televisivo da non disprezzare, salvo che non si mostri il dovuto rispetto per le persone coinvolte, ed anche per i presunti colpevoli. Certamente tornerà nei palinsesti, e tornerà con un forte tasso di spettacolarizzazione. Vedremo se tornerà con lo stesso rispetto che si è riusciti ad avere nell’analizzare le vicende del Covid. Siamo stati messi davanti a tante facce di persone “normali”, ed abbiamo imparato ad apprezzarle.

 Luca Baldazzi

 


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