“Con Sigonella finì la Prima Repubblica, gli americani non si fidarono più di noi”
Quarant'anni fa la crisi diplomatica con gli Usa. Nel libro “La Flotta” Flavio de Luca racconta i giorni drammatici del dirottamento dell'Achille Lauro
In occasione del quarantesimo anniversario della crisi di Sigonella, abbiamo intervistato Flavio de Luca, ex commissario della Flotta Lauro. L’autore del libro “La Flotta – Prova generale di Tangentopoli” ha ricostruito un passaggio delicatissimo per l’Italia e per la sua politica estera e di sicurezza, da cui emerge l’abilità di Bettino Craxi, il presidente del Consiglio che osò sfidare gli Stati Uniti.
“Fu una splendida operazione diplomatica ma un suicidio nei rapporti internazionali. Non è un caso che la classe politica di allora venne poi travolta dall’inchiesta Mani Pulite”. L’ex commissario della Flotta Lauro, Flavio de Luca, non ha dubbi sul filo rosso che lega la crisi di Sigonella alla fine della Prima Repubblica. A quarant’anni dai quei giorni drammatici nel libro “La Flotta – Prova generale di Tangentopoli” (Graus Edizioni), analizza le conseguenze di quella prova di forza.
Il 7 ottobre del 1985 un commando terroristico palestinese dirottò la nave Achille Lauro, vicenda che si concluse con la crisi diplomatica di Sigonella tra l’11 e il 12 ottobre. Fu davvero l’ultimo sussulto di orgoglio nazionale come spesso si dice?
Sì. È stato l’unico momento che io ricordi in cui ci fu veramente un senso di unità e di sentimento nazionale, nemmeno con l’attentato ai nostri militari in Libano fu così. Invece durante il dirottamento dell’Achille Lauro io registrai una forte spinta, anche dall’opposizione, a sostenere il governo. A Tel Aviv in quei giorni De Mita mi chiese la cortesia di non attaccare il governo guidato da Craxi, lui che era un suo avversario politico. A quei tempi ai congressi Dc c’erano gli striscioni “Demitizziamo Craxi”.
Cosa ricordi di quei giorni convulsi? Tu avevi solo trentadue anni e delle responsabilità enormi…
Mi ricordo dell’incontro a casa di Andreotti poche ore dopo il dirottamento, la sua calma quasi innaturale, l’idea di avere tutto sotto controllo: “Ho già parlato con Arafat” mi disse. Poi passai a prendere in un noto locale di Roma l’allora ministro dell’Industria, Renato Altissimo, e lo trovai che stava scrivendo una canzone con Mogol. Andammo insieme alla riunione a palazzo Chigi, dove Spadolini spingeva per avallare un intervento delle forze armate israeliane, trovando la ferma opposizione di Craxi. Io mi schierai con Bettino, l’incursione israeliana sarebbe stata un disastro. Terminata la crisi andai a prendere i passeggeri a Fiumicino: l’ambasciatore americano Rabb mi voltò le spalle e non mi rivolse parola. Mi si gelò il sangue, lì capii che gli americani ce l’avrebbero fatta pagare.
All’Italia quanto è costato quel “no” agli Usa e quali sono state le conseguenze politiche?
Dobbiamo ricordare che noi facemmo scappare sotto il naso degli americani Abu Abbas, capo del commando terroristico. Questo nonostante gli Usa ne avessero chiesto formalmente l’estradizione, portando una serie di documenti a sostegno della richiesta. Questo fece incrinare i rapporti, gli statunitensi si convinsero che quella classe politica non era più affidabile: avevamo scelto l’Olp e non gli Stati Uniti. E la frattura non si ricompose, altro che “Dear Bettino” come scrisse il presidente Reagan in una lettera. Ce la fecero pagare e la Prima Repubblica finì quel giorno.
Intendi dire che ci sono connessioni con Tangentopoli?
Penso di sì, gli Stati Uniti hanno interpretato quel rigurgito di nazionalismo come un nostro desiderio di affrancazione. Con la caduta del Muro di Berlino l’Italia perse molto della sua valenza strategica, il suo ruolo di ultimo perimetro difensivo dell’Occidente. Dopo Sigonella, con una classe politica indebolita e invisa, la Magistratura ebbe campo libero e diede il colpo di grazia alla Prima Repubblica.
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