Esteri

Congo: quaranta cristiani uccisi da miliziani integralisti islamici

di Gino Zaccari -


Abbiamo ancora tutti nella mente e negli occhi l’immagine della facciata della chiesa della Sacra Famiglia di Gaza, colpita e deturpata dalle armi israeliane, la croce che sovrasta la chiesa sfiorata per un soffio. Netanyahu con la sua consueta ipocrisia che si è affrettato, per modo di dire, a rassicurare il papa e l’Occidente che si è trattato di uno spiacevole incidente, un errore, che però è costato la vita a 3 persone, altre 10 sono state ferite, tra loro padre Romanelli, il parroco col quale ogni sera si sentiva papa Francesco. Di questo sangue cristiano, se ne è parlato perché sotto i riflettori dell’evento internazionale che sta monopolizzando i canali d’informazione mondiale.

Diverso è per quel fiume silenzioso di altro sangue cristiano che dall’Africa, al Medio Oriente, all’Asia scorre sotto i nostri occhi senza che nessuno lo veda. L’ultimo di una lunghissima serie di episodi è accaduto in Congo, dove miliziani delle Forze Democratiche Alleate (Adf), gruppo affiliato all’Isis, nella notte tra il 26 e il 27 luglio, ha assaltato una chiesa Cristiana durante una veglia, uccidendo a coltellate una ventina di persone presenti alla cerimonia, e dando alle fiamme case e negozi circostanti dove hanno trovato la morte altrettante persone.

Una recente indagine: World Watch List 2025, ci rende un quadro terrificante, di cui tra l’altro sembra che i media occidentali siano all’oscuro, nel mondo oltre 380 milioni di cristiani sperimentano alti livelli di persecuzione mentre lo scorso anno ne sono stati uccisi oltre 4 mila, sono in aumento gli abusi sulle donne che in molti Paesi non denunciano per ragioni culturali e sociali. In Corea del nord tra i 50.000 ed i 70.000 sono stati internati.
Seguono Somalia, Yemen, Libia e Sudan, nazioni a forte presenza musulmana, nelle quali “le fonti di persecuzione – si legge nello studio – sono connesse a una società islamica tribale, all’estremismo attivo e all’instabilità endemica. La fede cristiana va vissuta nel segreto e, se scoperti, i cristiani (specie se ex-musulmani) rischiano anche la morte”.

Tutto questo mentre da noi, nei talk show e nei dibattiti politici ci poniamo il problema dell’immigrazione selvaggia e degli attriti che ciò comporta soprattutto con le comunità islamiche, si fa un gran parlare di radicalizzazione e di islamizzazione dell’Europa, e allora alcuni movimenti e gruppi politici tirano fuori il vecchio mantra dell’identità cristiana. Per capire però dove sta il problema bisogna scavare un pochino più in profondità dentro noi stessi, dentro le responsabilità di ciascuno, nessuno è innocente se ci troviamo a questo punto. La nostra società è annacquata e ormai priva di valori solidamente riconosciuti, per invertire la rotta è ora di smetterla di parlare, di indagare le cause, ma ricominciare ad essere cittadini attivi e cristiani attivi per chi si sente tale.

E a questo proposito sfatiamo un mito, dire “cristiano non praticante” è come dire “voce del verbo sommergibile”: non ha alcun senso. Essere cristiano significa seguire gli insegnamenti di Cristo: “fate questo in memoria di me” non è un optional. Il cristiano è colui che vive la propria fede nella sua comunità, anche con la dialettica polemica quando serve, nell’ottica delle crescita comune.
È colui che partecipa ai sacramenti e soprattutto all’eucarestia, il cristiano non vive tutto questo con passività ma in modo propositivo, dinamico, coinvolgente, non è uno che dice di approvare o credere a dei princìpi di fondo senza viverli.

Quando i cristiani si riunivano nelle catacombe hanno evangelizzato il mondo, e dove hanno la forza di fare comunità, anche da perseguitati, riescono sviluppare una forza morale che noi ormai ce la sogniamo, e per questo chiunque arriva in Europa riesce a prevalerci e a dividerci. Siamo flaccidi, imputriditi nell’anima. Sappiamo che quando andiamo in palestra, o stiamo preparando un esame, più sforzo e fatica riusciamo a sviluppare e maggiori saranno i risultati.
La fede non fa eccezione, non è una cosa comoda come non lo è costruire un collettivo solido.
La solidità del collettivo, sia esso il quartiere, la città, la nazione o la parrocchia è ciò che manca all’Occidente di oggi, senza quella solidità siamo in balia delle spinte esterne e di quelle interne, immigrazione compresa.
Allora o decidiamo noi, ciascuno in prima persona, di uscire dalla nostra zona di confort e ricostruire un collettivo solido, o quello che succederà a nostro danno, sarà solo la conseguenza della nostra ignavia.


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