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Così parlò Messina Denaro

di Rita Cavallaro -


“Vedi che è arrivata la notizia di questo discorso… non parlare in giro di questo fatto che hai detto tu che è morto… perché già la notizia gli è arrivata che c’è stato qualcuno che sta dicendo che “Ignazzeddu” è morto… vedi che a quello quando pare che non gli arriva… perché ha sempre 7-8 persone che lo informano”. Comincia così quella che è considerata dai carabinieri del Ros la più importante intercettazione dell’inchiesta Hesperia, l’operazione che ha decapitato la rete dei fedelissimi di Matteo Messina Denaro, con l’arresto il 6 settembre scorso di 35 suoi uomini. Questo dialogo del 4 giugno 2021 rappresenta la svolta, perché non solo fornisce agli inquirenti la certezza investigativa che il boss di Castelvetrano non era morto o fuggito all’estero, come aveva fatto credere Totà Riina in una conversazione in carcere. Ma indica che il capo mafia è ancora lì, nel suo territorio. Il suo nuovo nome in codice è Ignazieddu, sa tutto quello che succede perché è il suo braccio destro Francesco Luppino, detto Gianvito, a informarlo personalmente. E dall’alto impartisce gli ordini ai fedelissimi. In quel momento Luppino doveva riportare la pace nei mandamenti in subbuglio dopo alcuni delitti e Denaro gli aveva dato l’indicazione di fermare le liti scaturite dalle voci messe in giro da Marco Buffa, sodale del clan di Marsala, il quale andava dicendo che Denaro non fosse latitante, ma era sparito perché morto. Parole all’orecchio del padrino e che lo avevano infastidito. Per questo motivo Luppino aveva fatto una riunione con il suo emissario, Piero Di Natale, che poi aveva incontrato Buffa, avvisandolo che Ignazieddu poteva perdere la pazienza. “Non accusate a me perché vi vengo ad ammazzare tutti e due là… io non l’ho detto mai questa cosa. Io a te l’ho detto… ti ho detto: “secondo me è così…”. Finisce a coltellate”, risponde Buffa. “L’hai detto tu personalmente e l’hai detto pure a Gianvito… per te è morto. Chiedi scusa, perché è vivo e vegeto”, insiste il braccio destro di Luppino. A quel punto Buffa, manifestando timori per la propria incolumità, riferiva a Di Natale che si sarebbe recato personalmente da Luppino, per rassicurarlo sul fatto che egli non avesse alcuna responsabilità in merito alle notizie giunte sulla presunta morte del latitante. E aggiunge: “Glielo dico a lui personalmente… io non le ho dette mai queste cose… io ho detto solo: “secondo me… per me”, gli ho detto… “per me non c’è… è morto… per me… ma gli è arrivata nelle orecchie, vero? Niente… allora fuochi di artificio succede…”. Di Natale lo tranquillizza: “Non succede niente. Malgrado è successo questo discorso… siccome quello dice, siccome una volta me l’hai detto… me l’hai detto tu insieme con Marcuzzu quando sei venuto… non ci fa niente dice… siccome questa cosa è arrivata da Marsala. Gli ho detto: “Scusami… Gianvi ma che può succedere… anzi non è meglio… mi hai detto tu che è meglio… dice: “sì… per certi versi dice è meglio… però mi dispiace sempre che la notizia deve venire da Marco…”. Ed è questo punto del dialogo che il referente di Luppino rivela al mafioso di Marsala di aver ormai raggiunto un tale livello di affidabilità agli occhi del suo superiore da essere stato promosso ai piani più alti e quindi di riuscire a ricevere notizie sempre più riservate al più stretto circuito mafioso, anche quelle riguardanti il capo dei capi. E racconta una scena in cui il capo facente funzione Luppino aveva indicato proprio Di Natale come suo diretto emissario davanti agli affiliati della Cupola: “Ha fatto tutto il discorso: “quando viene Piero è la mia stessa persona… quando viene e mi viene a trovare qua o mi trova là completa disposizione”. Per questo ti ho detto che io ora a differenza di prima… ancora di più ho notizie”. Di Natale, insomma, era stato ammesso nelle dirette interlocuzioni con il capo dei capi, Messina Denaro, e poteva leggere il contenuto dei pizzini inviati dal superlatitante, tutti scritti in un italiano fluente. E rivela il contenuto di uno degli ultimi biglietti redatti a mano dal boss, in cui aveva mandato i saluti a un certo “Sandrone”, non ancora identificato, aveva indicato la collocazione di una serie di persone nell’organigramma mafioso, di cui però il fiancheggiatore non faceva il nome, e infine aveva rassicurato i propri sodali che lui era “qua come prima, anzi più di prima”. Inoltre Denaro riaffermava il fatto che Luppino facesse le sue veci con la frase “lui è il mio pensiero”. Racconta Di Natale: “In uno degli ultimi gli ha detto: “Salutami a pi, salutami a pi, salutami a Sandrone e digli che io sono qua come prima, anzi più di prima… e lui è il suo pensiero… perché io a questo l’ho messo qua… a questo l’ho messo là e a questo l’ho messo da questa parte… tu se hai bisogno ti puoi rivolgere a questo… tu con questo se hai bisogno a quello rivolgiti a questo…”. E dopo una brevissima pausa: “Io personalmente stavo svenendo per la serie di nomi che ci sono stati… e all’ultimo ha ringraziato a tutti. Impressionante”. Infine riferiva del perdurante forte legame fra il capo mafia trapanese e Luppino: “E la stima che c’è e la fede che fanno sopra di questo io non me l’aspettavo… sino a oggi. Minchia, sono d’accordo a 360 gradi”.
Luppino, secondo Di Natale, era un capo scrupoloso, che controllava l’affidabilità dei picciotti, i quali non dovevano perdersi negli stravizi. Lui stesso era stato oggetto di una ramanzina paterna, perché l’emissario si giocava i soldi alle macchinette. “Se tu hai bisogno di curarti”, gli aveva detto il boss, “ti puoi andare anche a curare, perché questo non è facile da togliersi, perché la ludopatia è una cosa terribile”. E lui aveva immediatamente puntualizzato che il suo vizio lo pagava con i propri soldi, ma di non aver mai toccato la cassa con i proventi illeciti delle attività controllate da Luppino e dal padrino: “I soldi è vero che me li sono giocati, ma i soldi dell’attività non me li sono giocati. Io mi giocavo i soldi che mi guadagnavo io, non è che mi sono mai preso i soldi suoi o di quello”. Infine i boss controllavano anche le posizioni giudiziarie, per assicurarsi che tra loro non ci fossero pentiti. “Appena vengo dall’avvocato ti dò le 9mila pagine che ci sono sopra di me”, dice un picciotto. E sull’imprenditore Giuseppe Grigoli, condannato per aver fornito sostegno economico al latitante Denaro e diventato collaboratore di giustizia, la frase tombale: “Ormai l’unica cosa che c’era da fare era stare in silenzio, come sono sette, sono otto di anni, cosa ti cambia?”.

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