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Attualità

Da Gaza al Messico: 67 giornalisti uccisi nel 2025

La mappa del coraggio di chi racconta la realtà a costo della propria vita

di Dave Hill Cirio -


Da Gaza al Messico, dal Myanmar all’Ucraina, il 2025 ha trasformato alcune aree in trappole mortali per chi racconta la realtà: 67 giornalisti uccisi. Ogni luogo ha una storia, ogni numero un volto. Il mondo non ha abbassato la guardia. Anzi: quest’anno il conto delle verità pagate con la vita dai giornalisti torna a salire.

Reporter sans frontières ha pubblicato il suo bilancio: 67 giornalisti uccisi fra il primo dicembre 2024 e la stessa data dell’anno che volge al termine. Quasi la metà — il 43% — ha perso la vita nella Striscia di Gaza, sotto il fuoco delle forze israeliane. RSF denuncia che “i giornalisti non muoiono, vengono uccisi”: guerre, forze armate regolari o irregolari, criminalità organizzata restano il rischio costante per chi racconta la realtà.

Da Gaza al Messico: 67 giornalisti uccisi

Da Gaza al Messico, da zone di conflitto a territori di mafia: ogni cifra nasconde un volto, una storia, un’idea di verità che qualcuno ha scelto di sopprimere.
Ecco alcuni dei luoghi e delle vite che il 2025 ha cancellato — e che non possiamo dimenticare.

Gaza è tuttora terra di fotocamere sotto le bombe. Nella Striscia, il 2025 ha segnato uno dei capitoli più tragici nella storia del giornalismo mondiale. Nel calcolo di RSF 29 giornalisti sono stati uccisi sotto il fuoco israeliano. Tra loro c’è chi documentava raid, feriti, sfollati. Corrispondenti palestinesi e freelance internazionali: testimoni di una guerra che aveva bisogno — più che mai — di essere raccontata.

Un nome resta come simbolo della tragedia: Anas al‑Sharif, reporter di una testata araba, ucciso durante un attacco all’esterno di un ospedale. Al‑Sharif e i suoi colleghi non erano semplici “cronisti”: erano ponti tra Gaza e il mondo. Avevano assunto il dovere di documentare la distruzione, la sofferenza, la violenza. E hanno pagato con la vita.

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In Messico, storie di verità pagate con la vita, tra il dominio dei cartelli e i silenzi forzati. Il Paese al confine con gli Stati Uniti resta un grande focolaio di rischio. RSF segnala che il 2025 è stato uno degli anni più mortali per i giornalisti in quell’area, per l’attività dei cartelli della droga e il filo tra criminalità e potere locale. In quelle terre chi indaga su traffico, corruzione, tangenti o crimini rimane sotto costante minaccia. Molti scelgono di tacere, pochi restano e molti muoiono. Ogni nome di un reporter ucciso lì è un messaggio a chi cerca la verità. È il silenzio imposto a chi prova a dare voce a storie che qualcuno vuole nascondere.

Guerra e repressione in Medio Oriente e in Africa

La guerra e la repressione comandano la scena tra Siria, Medio Oriente e oltre. Secondo RSF, l’80% delle morti — 53 su 67 — riguarda giornalisti vittime di guerre o criminalità organizzata. Paesi come la Siria, teatri di conflitti o di regimi repressivi, restano nelle liste nere: arresti, sparizioni, violenze contro chi cerca di raccontare. Per molti giornalisti non c’è ritorno. Alcuni spariscono per sempre.

Una bomba per zittire una voce che raccontava la verità

A Mogadiscio, il 18 marzo, Mohamed Abukar Dabaashe moriva in un attacco di Al-Shabaab mentre documentava il caos dopo un raid. Il suo taccuino e la telecamera, vuoti testimoni del coraggio spezzato, simbolo della Somalia dove fare il giornalista significa sfidare la morte ogni giorno.

La verità a costo della vita

Lungo tutti i giorni del 2025, un quadro che va oltre Gaza e il Messico: un sistema globale di silenzio, strategico, pianificato.

Ogni giornalista ucciso, un frammento di verità cancellato. Perciò serve chi mostra il corpo senza vita di un civile, per testimoniare un crimine di guerra. Serve chi denuncia la corruzione, le tangenti, i poteri oscuri locali. Serve chi racconta la paura di una comunità che ha paura di parlare.

Quando giornalisti vengono uccisi, muore anche una parte della memoria, del racconto, della storia. Scompare la testimonianza diretta, resta solo il silenzio imposto.

Non basta contare, bisogna raccontare chi erano. Per ogni morte è possibile scrivere un nome, un volto, un’ultima inchiesta lasciata a metà.

Una una mappa del dolore e del coraggio: Gaza bombardata, villaggi messicani sotto minaccia, quartieri siriani pieni di paura, il caos in Somalia. Più che il resoconto crudo dei numeri, servono volti. Servono storie. Serve che il pubblico capisca che un giornalista ucciso non è un dato, è un essere umano. Perché documentare, scrivere, denunciare resta un atto di coraggio. RSF ci ricorda che la libertà di stampa non è solo una bandiera: è un campo minato.

Chi scrive rischia la vita. Chi legge, rischia l’indifferenza. Per questo, superando l’abituale conta di RSF, non diventa noioso ricordare nomi e storie. Per far parlare i silenzi e dare volto al buio. Dietro ogni numero c’è una vita che ha cercato di raccontare la verità. Perché se il giornalismo muore, anche la verità muore.


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