Mentre il cessate il fuoco a Gaza inizia a prendere forma, al Cairo, dove mercoledì si sono tenuti i colloqui con Hamas, si parla già della seconda fase della tregua. L’Egitto si prepara a ospitare la conferenza internazionale per la ricostruzione della Striscia.
L’iniziativa, che va sotto il nome di Piano arabo-islamico, ha il supporto, oltre che dei Paesi arabi moderati, di Unione Europea, Cina e Russia sotto l’egida di Onu e Banca Mondiale. È il ministro degli Esteri egiziano Badr Abdelatty, a fare luce sul futuro. “Nessun organismo sarà disposto a investire nella ricostruzione senza una chiara visione della sicurezza e dell’amministrazione di Gaza. Chi governerà? La nostra proposta per i primi sei mesi è quella di un governo tecnocratico in coordinamento con l’Autorità Palestinese di Ramallah”. Hamas dovrà essere fuori gioco.
Le parti in causa, chiamate a finanziare la ricostruzione, dettano legge. E non è difficile individuare la trama sottile delle connessioni che si delineano, al di là del grossolano progetto che ripesca dalle nebbie politiche l’Autorità Nazionale di Mahmud Abbas. Al centro c’è la questione energetica del gas. Lo ha detto due giorni fa il primo ministro israeliano Netanyahu nel corso di una visita al quartier generale della società energetica Eilat Ashkelon Pipeline Company, ribadendo la sua adesione al cessate il fuoco a Gaza. Parlando del network energetico di cui Israele sarà protagonista, ha dichiarato: “L’accordo è una grande opportunità per assicurare il nostro futuro economico, nazionale, internazionale ed energetico. Connetteremo l’Asia e il Medio Oriente, la penisola araba, con le sue grandi risorse energetiche, e l’occidente”.
Sono tre i bacini di gas israeliani attivi lungo le coste del Mediterraneo. Mentre il più vecchio, Tamar, fornisce energia per uso domestico, i due bacini della società israeliana NewMed Energy, il Leviatan, controllato dalla statunitense Chevron, e il Karish, controllato dalla britannica Energean, esportano gas in Egitto e Giordania. Quando Israele, dopo l’attacco al bacino iraniano South Pars, ha deciso di fermare il Leviatan e il Karish, ha colpito duramente non solo Teheran, ma anche i due Paesi arabi, facendo crollare il pound egiziano di tre punti percentuali. L’Egitto, in particolare, secondo i dati della Joint Organisations Data Initiative, importa da Israele il 15-20% del gas che consuma. Il 60% delle importazioni viene dal Leviatan.
Nel giugno del 2022 Israele, l’Egitto e l’Unione Europea hanno firmato un memorandum di intesa che permetterà a Israele di esportare il suo gas naturale in Europa. Agli egiziani spetterà il compito di liquefarlo nei loro impianti. L’anno dopo è arrivata la firma a un ulteriore accordo che affida a un consorzio internazionale nuove esplorazioni di gas al largo delle coste israeliane. Nel progetto ci sono la britannica BP, l’israeliana NewMed Energy e la società di Stato dell’Azerbaijan SOCAR. I progressi nelle esplorazioni, però, hanno subito una battuta d’arresto proprio a causa dello scoppio della guerra a Gaza.
Non è un segreto che uno dei più grandi esportatori di gas verso l’Europa sia il Qatar, che condivide con l’Iran il bacino più grande al mondo, il South Pars. E, allora, i conti tornano: basta seguire le trattative dei mediatori coinvolti e gli interessi in campo. Teheran non può affacciarsi sui bacini di gas per l’Europa grazie ad Hamas. Non per nulla, gli indici azionari di Tel Aviv hanno registrato aumenti a doppia cifra due giorni dopo l’inizio del conflitto con l’Iran, raggiungendo massimi storici.
Non resta che ricordare le parole che Trump ha rivolto alle autorità iraniane all’indomani del cessate il fuoco con Israele, esortandole a prendere parte al futuro economico del Medio Oriente: “Economia, non guerra”. Nella partita del gas c’è spazio per tutti: spetta a Teheran decidere se salire sul carro e uscire dal circolo vizioso delle sanzioni. Le condizioni sono già scritte, a Teheran come a Gaza.