Politica

Dai big Pd a Calenda ora tutti contro Letta e Prodi fa il badante

di Adolfo Spezzaferro -


Enrico Letta è sempre più solo e alle prese con l’effetto boomerang dei suoi (terribili) manifesti elettorali, con le critiche continue da parte dei suoi dirigenti per come ha deciso le candidature e per come sta gestendo la campagna elettorale. Per il segretario del Pd è quasi impossibile salvarsi dalla disfatta, sia sul fronte interno della leadership, sia nei confronti delle altre forze in lizza per il voto del 25 settembre. L’aver bipolarizzato lo scontro, sostenendo di essere l’unica alternativa vincente da contrapporre alla Meloni e alla vittoria del centrodestra, ha scatenato le sacrosante critiche di tutte le altre forze politiche. A partire dai terzopolisti, che giustamente si sentono in diritto di proporsi come alternativa sia ai dem, e alla loro ammucchiata elettorale con SI, Verdi, +Europa e Di Maio, che al centrodestra. Ma Letta non demorde, torna a ripetere che nei collegi uninominali non ce n’è per nessuno: o vince lui o vince la Meloni. Un duello a due, che taglia fuori tutti gli altri. Sia nel centrodestra che nel centrosinistra. Ma è evidente che si tratta di una lettura forzata della realtà. Così come sono fuori dalla realtà i sui manifesti rosso/nero, una sorta di pagella dei buoni e dei cattivi, con una contrapposizione posticcia, infondata e soprattutto datata.

Colui che è ormai conclamato come il suo più accanito avversario, Carlo Calenda, emette una sentenza senza appello per il leader dem. “Ieri Letta ha detto: ’Rifaremo il campo largo. Ci rialleeremo con i 5 stelle la mattina dopo le elezioni’, ma allora dillo prima agli elettori, con grande chiarezza. Perché voglio vedere se gli elettori del Pd sono pronti a ricominciare una cosa in cui c’è Di Maio, Fratoianni, Conte, la Taverna. Ma veramente il Partito democratico… Ma come si è ridotto in questo modo?”, è l’attacco del leader di Azione. “E anche Bonaccini, gli domando: come può difendere un Pd che non riesce a dire sì al rigassificatore a Piombino, a gente che dice di no a tutto”. Calenda lo esorta a far sentire “la vostra voce, non potete andare avanti così. Mandiamo allo sfascio questo Paese per l’incapacità di Letta di scegliere con chiarezza se stare con l’agenda Draghi o sull’agenda Fratoianni”. L’ex dem non ha dubbi: “Le grandi città si sono rotte le scatole di un Pd che non fa altro che dire votate contro la Meloni.

Perché questo non è governo, è la solita corrida che vediamo da trent’anni”. Poi l’affondo finale: “Letta – conclude Calenda – ha avuto la peggiore gestione di un segretario del Pd degli ultimi trent’anni e ha già scelto di perdere gli uninominali. E l’ha scelto consapevolmente”.

Ad illudere Letta che il suo campo ristrettissimo sia invece il nuovo Ulivo è la presenza di Romano Prodi, che lo applaude alla Festa dell’Unità di Bologna. “La grande intuizione dell’Ulivo ci ha consentito per due volte di battere Berlusconi, e prepariamoci alla terza”, dice convinto il leader dem. Enrico mai sereno spiega di essere tornato da Parigi per evitare che “il partito nato da una grande intuizione di Romano Prodi, quella dell’Ulivo”, perdesse le sue caratteristiche di partito “largo” e “inclusivo”. Oggi invece l’alleanza messa su dal Pd a ben vedere è si inclusiva ma di certo non larga (e men che mai vincente, a leggere i sondaggi).

L’immagine plastica della solitudine di Letta è data dai meme che si sono moltiplicati sui social subito dopo la diffusione dei manifesti del Pd con il nero riservato al centrodestra e il rosso riservato ai dem, portatori di tutto ciò che è bello e buono per il Paese. Una visione autoreferenziale, che si guarda l’ombelico-Ztl.
Pure la Lega, dopo gli sfottò tipo “pancetta nera” e “guanciale rosso” fa il verso ai manifesti di Letta. Uno su tutti, quello che fa riferimento al recente scandalo che ha terremotato il sindaco dem di Roma Gualtieri. Nel lato nero del manifesto campeggia il blu Lega con “Italia in piedi”, nel lato rosso c’è “In ginocchio o ti sparo” e accanto a Letta il volto di Albino Ruberti, l’ex capo di gabinetto di Gualtieri costretto alle dimissioni dopo la diffusione di un video della sua lite con altri esponenti dem in cui pronuncia la frase incriminata.


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