Economia

Dal Green deal ai carri armati, il nuovo corso Ue

di Giovanni Vasso -


Dal Green Deal ai carri armati, l’Europa prova ad abbandonare la transizione verde per sostenere l’industria in grigio-verde aumentando la spesa militare che, adesso, è pari all’1,9% del Pil degli Stati membri. Un cambiamento epocale. Repentino, rapidissimo. Agevolato e sostenuto dal “mutevole contesto di sicurezza” internazionale, leggi dalle mattane di Vladimir Putin in Ucraina. Ieri l’agenzia europea per la difesa ha diffuso i dati legati alle spese militari dei 27 Stati membri. E i numeri sono, se possibile, clamorosi.

Dal Green deal ai carri armati, le spese Ue per la difesa

Gli investimenti complessivi in spese per la difesa nel 2024 hanno raggiunto, in tutta l’Unione europea, la somma record di 343 miliardi di euro. Un valore quasi doppio a quello del Pnrr italiano. Ma i numeri più impressionanti si annidano nei trend percentuali. Già, perché le spese per la difesa sono aumentate per il decimo anno consecutivo e, rispetto al 2023, c’è stato un vero e proprio salto stimato in circa il 19%. Che fa il paio con un altro imponente rialzo a doppia cifra che si era registrato due anni fa quando le spese militari erano già schizzate del 10 per cento. Così l’Europa sfiora la soglia del 2% delle spese militari (rispetto al Pil) che Donald Trump aveva imposto durante il suo primo mandato alla Casa Bianca. Ma, chiaramente, agli americani non basta. E, anzi, a Washington preferirebbero che quegli altezzosi degli europei facessero shopping proprio tra i produttori americani.

L’esempio della Germania

Bruxelles, però, aveva già intravisto nella guerra e nella necessità di riarmare l’Europa un modo veloce per ridare fiducia e slancio alla produzione industriale. Anzi, prima che in Belgio l’idea era già venuta ai tedeschi. Merz, neoeletto cancelliere a Berlino, aveva promesso un piano da 900 miliardi per il riarmo. Cosa che ha ingolosito le derelitte case automobilistiche tedesche, colpite (quasi) a morte dalla guerra commerciale (persa) scatenata dall’Ue contro la Cina. Volkswagen, per esempio, ha formalizzato gli accordi con il colosso della sicurezza Rheinmetall per la produzione di carri armati nello stabilimento di Osbabruck, dove un tempo fu negoziata la Pace di Westfalia. La tentazione ha ghermito pure i vertici di Porsche che si ritrovano a fare i conti con una crisi delle vendite spaventosa. L’idea del Ceo Hans Dieter Pötsch era quella di impegnarsi nella costruzione di mezzi militari per ovviare ai buchi di bilancio. Ma il consiglio di fabbrica della casa di Stoccarda, proprio nel giorno in cui ricorrevano i 60 anni dalla nascita dell’iconica 911 Targa, si sono opposti all’iniziativa dei manager. Almeno per ora, almeno per un po’. La via, però, è tracciata. A dispetto di ciò che ne possa pensare Stellantis che invece ha rinunciato, con una solenne dichiarazione del presidente John Elkann, a entrare nell’affare “militare”.

Il Rearm Ue

L’ulteriore aumento (record) registrato nel 2024 sarà solo l’inizio. Il piano Rearm Ue, poi ribattezzato come Readiness 2030, prevede la possibilità, per gli Stati membri, di ottenere prestiti per complessivi 150 miliardi di euro. Una somma che è quasi il doppio di quanto, finora, Bruxelles sia riuscita a stanziare per gli aiuti in Ucraina ammontanti a 88 miliardi o giù di lì. Ma con il paradosso per cui agli Stati sarebbe stato più semplice reindirizzare fondi all’acquisto di armi piuttosto che per spese come scuola e sanità.

Le armi, le spese militari, dovranno dare all’Europa (o almeno alla Germania…) lo slancio che dal Green Deal non è arrivato. Sarà un’impresa improba. Perché la transizione, per cui sono stati spesi miliardi su miliardi, non ha colto alcuni degli obiettivi primari che si era imposta. A cominciare da quello legato al superamento della subalternità energetica rispetto ai grandi fornitori internazionali. E, anzi, ha moltiplicato regolamenti e burocrazie rendendo impossibile la vita (e il lavoro) a intere categorie produttive. A cominciare dagli agricoltori. La speranza è che con le armi si attivino catene del valore altrimenti a rischio. Il problema, però, potrebbe nascere dalla volontà di imporre una sorta di “pan-europeismo” anche nella produzione che potrebbe portare all’imposizione, sugli altri, di pochissimi player continentali.


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