Dall’11 settembre al 7 ottobre: storie di rappresaglie
Due ferite reali che diventano due alibi perfetti: dall’11 settembre 2001 al 7 ottobre 2023 è passato oltre un ventennio, ma oggi, nel ricordare quello che accadde esattamente 24 anni fa negli Stati Uniti non possiamo che notare una spaventosa vicinanza e confrontarci con una realtà che ripercorre uno schema di violenza senza misura. Una linea di “principio” che si tiene in piedi con una giustificazione semplice quanto terrificante: rispondere ad un crimine con la distruzione.
L’11 settembre degli Usa, il 7 ottobre di Israele
Quell’11 settembre 2001, gli Usa vennero colpiti al cuore: quattro attacchi suicidi coordinati, pianificati da Al-Qaida e voluti da Osama bin Laden, colpirono le Torri Gemelle e il Pentagono causando una scia di morte che cambiò per sempre la storia del Paese, la politica mondiale, e che segnò per il governo americano l’inizio (l’ennesimo) di una campagna di violenze. Trovare bin Laden e fermare il terrorismo diventarono la giustificazione “legittima” per invadere l’Afghanistan e scatenare una guerra in Iraq. Il risultato: vent’anni di occupazione del territorio e oltre 240mila morti nel “Paese dei talebani”, quindici anni di conflitto e oltre 300mila persone uccise in Iraq. Conto (aperto) a cui si aggiungono le campagne in Libia, Pakistan, Somalia, Siria e Yemen: Paesi che rispondono al mantra del “qualsiasi obiettivo è buono per sradicare il terrorismo”.
Ma è la vittima che diventa carnefice nel nome della vendetta: la stessa che oggi Israele perpetua (solo come ultimo punto di partenza in ordine di tempo) dal 7 ottobre 2023, contro chiunque nomini la parola “pace”. La risposta ai terroristi di Hamas a seguito degli attentati è stata la mera scusa per far ripiombare in guerra la Striscia di Gaza e per giustificare un intenzionale e premeditato sterminio del popolo palestinese. Una rinnovata guerra che in meno di due anni ha portato Israele ad essere un Paese fuori controllo, che agisce nel terrore e che del terrore ne fa un’arma politica. Un Paese che, in meno di due anni da quel fatidico giorno di ottobre, ha bombardato – senza contare il genocidio sulla Striscia di Gaza – altri sei Stati sovrani: Libano, Iran, Siria, Iraq, Qatar e Yemen. Paesi a cui si aggiunge la Cisgiordania, la regione massacrata da sempre nelle mire di Tel Aviv.
Una guerra intrapresa nella piena consapevolezza della propria e totale impunità, senza il rispetto di alcuna legge internazionale. Israele, quel Paese a cui tutto è concesso: per una responsabilità storica dell’Occidente e per i rapporti commerciali e militari di cui, con quest’ultimo – capeggiato dagli Stati Uniti -, ne ha fatto la linfa vitale. La misura, ad oggi, è stata ampiamente superata e il rischio è quello di ricadere in una guerra permanente: quel pezzo di mondo potrebbe essere trascinato nella devastazione da Netanyahu, mandante, con l’aiuto di quell’estrema destra israeliana sempre più potente influente e dai coloni, che seguono (ancora) il sogno del Grande Israele: da Damasco al Sinai passando per la pulizia etnica. Non è giusto permetterlo. Ma lo stiamo facendo.
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