Economia

Trump, l’Ue e i dazi come arma (finale) politica

Lettere, tira e molla, minacce, composizioni: a chi servono i dazi e perché

di Giovanni Vasso -


I dazi funzionano prima come leva per la politica, poi per tutto il resto. Grandi speranze, piccole delusioni. In fondo, al di là delle lettere, dei postini che suonano sempre due volte (l’ultima sarà il 1° agosto, almeno in teoria), il senso dei dazi è tutt’altro che economico. Ma politico, squisitamente politico. Le tariffe rappresentano e sono l’arma finale, quella sì letale, con cui The Don vuole ribadire la grandeur americana. Che, evidentemente, ha bisogno d’essere tirata un po’ a lucido.

All’Ue, il tycoon, gliela ha giurata in campagna elettorale. E già da prima. Ma l’uso politico delle tariffe si avverte, plastico ed evidente, in Sudamerica. Dove ha imposto il 50 per cento dei dazi al Brasile. Sfidando il presidente Ignacio Lula a un confronto. O meglio, provando a ingiungere a Lula di alleviare le pene dell’amico, nonché ex presidente carioca, Jair Bolsonaro, finito stritolato dalle inchieste della magistratura carioca. Magari, con le tariffe, si risolve un gran problema. Peccato non poterlo fare, in casa, con Jerome Powell, il governatore della Fed che non solo s’ostina a non abbassare i tassi costando così “un mare di soldi al Paese” ma non vuole nemmeno lasciare la poltronissima della banca centrale federale. Ma lo schiaffo più sonoro, ancora una volta, l’hanno accusato i canadesi: tariffe al 35% e “mi pare che l’hanno presa bene”. Come scrive il Wall Street Journal, la minaccia di dazi a un terzo per il Canada ha causato l’ennesimo crollo azionario. Trump, che ha esteso (ancora) i termini fino al 1° agosto, ha deciso di imporre per tutto il resto del globo, per quei Paesi a cui non ha inviato posta, dazi tra il 15% e il 20 per cento. Né stangate né carezze. Una base per trattare. Perché, alla fine, la questione è tutta qui. Il presidente americano ha deciso di far sentire tutto il peso dell’America, deve badare a una base elettorale che è facile a incupirsi e a rigirarglisi contro (a stento trattenuta dai 1.300 licenziamenti al Dipartimento di Stato nell’ottica della lotta al “deep State”), ha da bilanciare i grandi interessi delle multinazionali Usa, dal Big Tech digitale, terrorizzato dalla burocrazia Ue, fino ai petrolieri, passando per i campioni della Difesa, per l’agroalimentare americano bloccato, in Europa, da normative molto più rigorose rispetto a quelle nazionali. Grandi speranze, piccole delusioni. Ecco, le ragioni della politica che si intrecciano all’economia, così funzionano questi mesi di tira e molla sui dazi. Ma pesano, poi, sulle tasche di ognuno.

Le Borse europee, dopo aver coltivato per giorni la speranza di un accordo in extremis, hanno passato un venerdì di passione, con Milano (-1,1%) a portare la croce degli afflitti, che piangono lacrime amare a Parigi (-0,92%) e Francoforte (-0,89%). Bruxelles, dopo una settimana di dichiarazioni, audizioni e tweet, si trincera dietro il solito Olof Gill. Che da portavoce si fa guastafeste: “Noi restiamo aperti a un accordo di principio ma novità rilevanti per chiuderlo a breve non ce ne sono”. E poi barista di Washington: “Aspettiamo che i nostri amici americani si risveglino”. Good morning, mister president. L’unico, in un certo senso, a rimanere sempre sulla sua idea è il tetragono Giancarlo Giorgetti, che la butta, come fa da mesi, sull’analisi di scenario a medio-lungo termine ma che interpretano i dazi per ciò che sono, ossia un’arma politica, potentissima: “Gli Usa, che con il presidente Clinton hanno voluto la globalizzazione, con l’amministrazione Trump hanno fatto marcia indietro: stiamo tornando all’impensabile fino a qualche anno fa”. Ecco, impensabile. Ma è una realtà. Con la quale bisogna fare i conti. Anche perché lo scenario è altamente incerto. Più che le tariffe in sé, per il momento, a far danni è l’incertezza che avvolge, come la nebbia in Val Padana, gli scenari economici mondiali. Il governatore di Bankitalia, Fabio Panetta, come la “collega” Bce Christine Lagarde, si sforza di guardare al bicchiere mezzo pieno: “Per la prima volta da decenni, il ruolo centrale del dollaro nel sistema finanziario globale è stato messo esplicitamente in discussione”. Sarebbe un colpaccio fare dell’euro la nuova valuta di scambio internazionale. Xi e Trump permettendo, ça va sans dire. E sempre che non abbia nulla in contrario manco il Bitcoin che ieri ha frantumato l’ennesimo record, stabilizzandosi oltre i 118mila dollari. C’è poi chi, come il presidente Abi Antonio Patuelli, evoca lo spettro della recessione di fronte ai dazi. Confortato, in questo, da Confindustria secondo cui, con le parole del presidente Emanuele Orsini, “se dovessero superare il 10% servirebbero compensazioni”. Gli italiani, che già vantano il poco lusinghiero primato dei salari reali più miseri e impoveriti dell’intera area Ocse, tremano.


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