Diplomazia sotto pressione: da Pratica di Mare all’Alaska
Un’analisi critica sull’evoluzione della diplomazia internazionale, dal dialogo strategico di Pratica di Mare (2002) al vertice simbolico tra Trump e Putin in Alaska (2025), evidenziando il declino della cultura politica di potenza
Nel maggio del 2002, l’aeroporto militare di Pratica di Mare divenne il palcoscenico di un evento politico di portata storica: la firma della Dichiarazione di Roma e la nascita del Consiglio Nato-Russia. Protagonisti di quell’intesa furono George W. Bush, Vladimir Putin e Silvio Berlusconi, che, da anfitrione, si pose come tessitore di un dialogo fino ad allora impensabile.
Pratica di Mare: un dialogo strategico nel 2002
A pochi mesi dagli attentati dell’11 settembre, il clima internazionale era segnato da tensioni e paure, ma anche da un’opportunità: quella di ridefinire i rapporti globali su basi pragmatiche. Putin offrì sostegno agli Stati Uniti nella lotta al terrorismo, mentre Bush, spinto anche dalla mediazione personale di Berlusconi, accettò l’idea che una Russia cooperativa potesse entrare in una cornice di sicurezza euro-atlantica condivisa.
Il risultato fu una delle aperture diplomatiche più significative del post-Guerra Fredda: un formato di dialogo paritario tra la Nato e Mosca, che sembrava preludere a una vera architettura di sicurezza integrata.
Il vertice Trump-Putin in Alaska nel 2025
Ventitré anni dopo, il 15 agosto 2025, un altro vertice storico si è tenuto ad Anchorage, in Alaska. Questa volta i protagonisti erano Donald Trump, tornato sulla scena politica americana, e Vladimir Putin, ancora saldamente al potere in Russia. L’incontro, altamente simbolico, ha riportato il dialogo russo-americano al centro del palcoscenico internazionale.
Non si è trattato solo di una manovra diplomatica, ma di una messa in scena strategica: base militare, bandiere, scambio di limousine, dichiarazioni senza compromessi. Trump ha rivendicato di essere l’unico in grado di parlare con Putin “da pari a pari”, mentre il leader russo ha ribadito che, se Trump fosse stato presidente, la guerra in Ucraina “non sarebbe mai iniziata”.
Eppure, nonostante i toni concilianti, nessun accordo formale è stato raggiunto. L’incontro è sembrato più un’esibizione di forza e disponibilità che una vera trattativa. È mancata – come spesso accade oggi – la struttura strategica che aveva caratterizzato Pratica di Mare: un quadro multilaterale, una visione condivisa, un piano di lungo periodo.
Il nodo cruciale della volontà di cedere
Un elemento fondamentale da considerare è che, per quanto un leader come Trump possa mostrarsi disponibile al dialogo e alle trattative, il successo di qualsiasi negoziato dipende in ultima analisi dalla volontà di cedere dell’altra parte. Nel caso di Putin, la questione ucraina rappresenta un perno strategico irrinunciabile, un simbolo di potere e sicurezza nazionale che difficilmente sarà negoziato senza un costo politico elevatissimo.
Trump può utilizzare leve economiche, come sanzioni o incentivi, o agire come mediatore personale per provare a spingere Mosca a una soluzione condivisa. Tuttavia, senza un interesse reale di Putin a compromessi, questi sforzi rischiano di rimanere vani. La diplomazia bilaterale, specie se priva di un sostegno multilaterale forte, si scontra così con i limiti imposti dalle strategie e dagli obiettivi politici di ciascun attore.
In definitiva, la volontà politica russa resta il fattore decisivo. Senza questa, anche il miglior interlocutore e la più articolata strategia diplomatica si trovano impotenti di fronte al muro dell’intransigenza.
Dal dialogo strutturato alla diplomazia spettacolare
Il confronto tra Pratica di Mare (2002) e Anchorage (2025) evidenzia un cambio di paradigma. Nel primo caso, l’iniziativa fu inserita in un progetto più ampio di sicurezza euro-atlantica, con il coinvolgimento diretto della Nato e dell’Unione europea. Nel secondo, si è trattato di un vertice bilaterale, personalistico, che ha alimentato più retorica che sostanza. La differenza cruciale è la visione strategica: nel 2002, si pensava in termini di architetture geopolitiche; nel 2025, si rincorre la notizia e l’effetto immediato. La diplomazia è divenuta spettacolo, mentre le istituzioni internazionali arretrano.
La fine della cultura strategica
L’incontro di Trump e Putin in Alaska mostra che il dialogo è ancora possibile, ma sempre più svuotato di contenuto e di visione. A differenza di Pratica di Mare, mancano oggi interlocutori capaci di pensare in termini di potere, equilibrio e interessi durevoli.
Come ha scritto Germano Dottori, consigliere scientifico di Limes: «L’incompetenza di molti commentatori italiani in materia strategica, palese già ai tempi di Machiavelli che l’imputava persino ai Principi, è semplicemente imbarazzante, come l’abissale ignoranza di tutto ciò che ha a che fare con la politica di potenza, che è tuttora decisiva». Una riflessione amara, ma necessaria. Senza cultura strategica, ogni vertice rischia di essere solo teatro. E la pace, senza strategia, rimane un’illusione.
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