Salute

Diritto alla salute e obbligatorietà dei vaccini

di Redazione -


In un articolo di inizio pandemia (16 marzo 2020) sulla legittimità costituzionale delle misure di contenimento adottate dal Governo dell’epoca, sostenevo non solo l’assenza di alcun profilo di incostituzionalità, ma anche la doverosità delle stesse, ai fini della tutela del diritto alla salute, che l’art. 32 della Costituzione definisce “fondamentale”. Avevo scritto allora che tale qualifica non era dovuta ad una sorta di gerarchia dei diritti costituzionali, ma al carattere funzionale che la “salute” assume ai fini del pieno esercizio della cittadinanza attiva, del diritto di libera manifestazione del pensiero, riunione, circolazione, partecipazione alla vita politica.   

 

Sull’argomento e con ben altra autorevolezza è intervenuto il costituzionalista Gustavo Zagrebelsky, che, in una intervista rilasciata a Il Fatto quotidiano del 7 agosto 2020, confermava le mie considerazioni di marzo. Queste le sue parole: «È prevista dalla Carta la possibilità di limitare la libertà di circolazione per motivi di sanità e incolumità pubblica. Se si parte dal presupposto che tali motivi esistono, la conseguenza ovvia è la legittimità delle restrizioni alla libertà di circolazione. Si dice che queste restrizioni incidono su altri diritti: di riunione, di studio e socializzazione scolastica, di attività lavorativa, perfino di esercizio comunitario della libertà di culto. Ma queste sono conseguenze, di cui non è lecito sminuire la gravità, che tuttavia derivano dall’esigenza precauzionale relativa alla tutela della salute». E a chi sosteneva il carattere autoritativo delle misure di contenimento, così replicava: «Sì, ci sono alcuni che, per il gusto del beau geste libertario assomigliante al “menefreghismo” estetizzante dei futuristi d’altri tempi, non esitano a mettere in pericolo la salute altrui. Ma, qui non c’è il diritto di fare della propria salute quello che si vuole, ma c’è il dovere di non giocare con la salute degli altri. Sono degli irresponsabili che hanno della loro libertà un concetto totalmente egoistico».

Oggi, la pandemia ha provocato circa 120.000 decessi, il collasso del Sistema sanitario nazionale, la crisi economica di molte attività imprenditoriali, in particolare nel settore del commercio, della ristorazione, del turismo, dello spettacolo, dello sport. Nonostante che i dati giorno per giorno, nei mesi della “terza ondata”, ci informavano dell’estensione della pandemia, anche per effetto delle varianti (alias “mutazioni”), il popolo negazionista non demorde, e usa falsità organizzate, a volte farneticanti, con connotazioni eversive e antisemite, come in un recente libro (sarebbe ingiusto definirlo “saggio”), sul quale non è il caso di soffermarsi.

C’è un problema di sicurezza sanitaria, di sicurezza economica, di sicurezza sociale, insomma di sicurezza nazionale. Di conseguenza, il solo rimedio idoneo a stroncare la trasmissione del Covid-19, è la vaccinazione di massa. Operazione complessa soprattutto nei paesi con alto numero di abitanti, con alta percentuale di anziani ultraottantenni, di per sé fragili, con disponibilità di vaccini limitata. Per raggiungere risultati positivi, è necessario inserire i vaccini anti-Covid tra quelli obbligatori per legge? Non sarebbe una soluzione autoritativa e liberticida, tutt’altro. Esistono dieci patologie contagiose a vario titolo, per le quali è da tempo prevista l’obbligatorietà del vaccino, per i minori da 0 a 16 anni. Sono: antipoliomielitica, antidifterica, antitetanica, antiepatite B, antipertosse, antihaemophilus influenzae tipo b, vaccino trivalente (antimorbillo, antirosolia, antiparotite, antivaricella). Molte di queste patologie hanno esito mortale solo in rari casi (come quelle del vaccino trivalente) e dunque non si vede perché non si debba introdurre l’obbligatorietà dei vaccini, dei quali sia assicurata una percentuale di efficacia superiore al 90%.

Nel caso della pandemia da Covid-19, è stata resa obbligatoria la vaccinazione del personale sanitario in genere, obbligo la cui violazione non è sanzionata penalmente, ma con misure di tipo amministrativo, come il demansionamento e/o la sospensione dalle funzioni esercitate presso case di ricovero per anziani, ospedali e strutture sanitarie come farmacie, laboratori di analisi, medici di famiglia.

Nel caso si voglia disporre un obbligo generalizzato, occorre seguire la procedura prevista all’art. 32, comma secondo, prima parte della Costituzione, secondo cui: «Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge» Non v’è dubbio che anche la somministrazione obbligatoria di un vaccino rientri nella più ampia categoria dei trattamenti sanitari, con riserva di legge. È una necessità sin troppo ovvia, sulla quale si sono esercitati illustri costituzionalisti, presidenti ed ex presidenti della Corte costituzionale, per sostenere, come se potessero esserci dubbi, sulla necessità di un chiaro intervento legislativo. La lettura dell’art. 32 sarebbe stata sufficiente a dirimere eventuali dubbi anche per chi della Costituzione repubblicana ha conoscenze vaghe e generiche.

Dell’obbligo di vaccinazione aveva avuto modo di occuparsi la sentenza della Corte costituzionale n. 5 del 2018, relatore e redattore l’allora giudice costituzionale e ora Ministro della Giustizia, Marta Cartabia. La sentenza stabiliva che il trattamento sanitario obbligatorio è conforme alla Costituzione alle seguenti condizioni: se è diretto non solo a tutelare lo stato di salute della persona vaccinata, ma anche a preservare la salute degli altri; se non incide negativamente sulla salute di chi viene vaccinato; se, nel caso la persona vaccinata abbia subìto qualche conseguenza negativa, sia prevista in suo favore una equa indennità.

Non vi sarebbe necessità della previsione legislativa dell’obbligatorietà del vaccino se non vi fosse “il rifiuto del vaccino” che ha interessato non solo l’uomo della strada, diffidente e timoroso di ogni intervento esterno sul proprio corpo, ma addirittura parte non trascurabile del personale sanitario (medici e infermieri).

L’ampia adesione alla campagna vaccinale ha reso in gran parte superflua la necessità dell’obbligo vaccinale, stante la prossimità semantica tra “prescrizione medica” e “obbligo giuridico”. Ciò in forza del principio costituzionale della irrinunciabile solidarietà (art. 2 Cost.), secondo il quale la vaccinazione, a prescindere dalla previsione dell’obbligatorietà normativa, costituisce non solo l’applicazione terapeutica del diritto alla salute propria, ma anche un “dovere”, al fine di evitare danni alla salute altrui. Vi è ancora un “tertium genus” da considerare, quello della “necessità” della vaccinazione. Sono le ipotesi che ricorrono “per motivi di lavoro” (tutto il comparto sanitario) o “per incarico del loro ufficio” (Forze dell’ordine, addetti alle casse o agli sportelli di uffici pubblici, banche, ecc.) o per potere accedere ad uno Stato estero.

I vaccini raccomandati non sono, dunque, meno importanti di quelli obbligatori. Ed il diverso regime giuridico non discende da una graduazione di importanza, ma da una scelta strategica delle autorità sanitarie e di governo – che possono conseguire il raggiungimento degli obiettivi prefissati con la campagna vaccinale ‒ sull’informazione e sulla persuasione, piuttosto che sulle sanzioni di natura amministrativa o penale.

Nei luoghi di lavoro, inoltre, è il datore di lavoro che ha l’obbligo di adottare le misure necessarie per evitare la possibilità di contagio al loro interno, da cui discende che l’eventuale contagio deve essere classificato un infortunio sul lavoro vero e proprio, quando si tratta di dipendenti. Nei casi di terzi che si trovino sui luoghi di lavoro o di soggetti contagiati nei luoghi di ristorazione o soggiorno (ristoranti, bar, alberghi), il titolare dell’attività ne risponde a titolo di responsabilità civile. Sempre a carico dei datori di lavoro ricorre l’obbligo di far vaccinare i dipendenti che siano a contatto con il pubblico nei casi di cui al capoverso precedente.

Il tribunale di Belluno, con ordinanza del 19.3.2021, è intervenuto, in via di urgenza, con un pronunciamento che nega la tutela ripristinatoria del rapporto lavorativo a due infermieri ed otto operatori socio-sanitari che avevano rifiutato di sottoporsi alla vaccinazione Pfizer lo scorso febbraio e che, per questo, erano stati sottoposti alla visita del medico competente, sospesi dal lavoro e messi in ferie “forzate” dalla direzione delle Residenze sanitarie per anziani presso cui lavoravano.

C’è chi ha parlato in proposito di “tolleranza zero” verso gli operatori sanitari che rifiutano il vaccino anti-Covid, ma il giudice di Belluno si è limitato ad applicare i princìpi di tutela della salute nei luoghi di lavoro per come emergono dall’ordinamento, e senza dare sfogo ad alcun draconiano rigore.

Il giudice ha ritenuto che la pretesa dei lavoratori fosse manifestamente infondata, e quindi priva del fumus boni iuris, non potendo essi ritornare al lavoro senza vaccinarsi presso una Residenza sanitaria per anziani o Rsa: luoghi divenuti drammaticamente famosi nelle cronache di questi mesi, «vere e proprie anticamere della morte» per l’elevato numero di contagi e di decessi che si sono succeduti, anche riguardo a persone prive di qualsiasi altro contatto con il mondo esterno, e pertanto deprivate anche di quella affettività relazionale che determina il peggioramento della qualità della vita, di fatto accorciandola.

Sul piano processuale il giudice ha effettuato questo accertamento attraverso la delibazione sommaria tipica richiesta in sede cautelare. La stringatezza della motivazione dell’ordinanza è coerente con la natura del procedimento azionato e, come tale, formalmente ineccepibile. Essa è comunque sufficiente a dare conto, alle parti del procedimento, del percorso logico-giuridico seguito ai fini della decisione.

Nel merito, il provvedimento ha basato la decisione di rigetto della domanda sulla scorta di due convergenti valutazioni giuridiche che, allo stato, confortavano la presumibile legittimità del potere sospensivo esercitato dal datore di lavoro. Sospensione fondata, tra l’altro, sul giudizio di inidoneità formulato dal medico competente, il quale aveva dichiarato i sanitari inidonei al servizio (rispetto all’ambiente di lavoro), consentendo ai vertici delle Rsa di allontanarli dal luogo di lavoro per «impossibilità di svolgere la mansione lavorativa prevista».

Sul piano civilistico è d’obbligo il richiamo all’art. 2087 del Codice civile, in forza del quale l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa tutte le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessari a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro. Ciò deve avvenire anche contro la volontà degli stessi lavoratori protetti ed anche quando la tutela della salute nell’ambiente di lavoro comprende la soggezione ad un determinato trattamento sanitario previsto dalla legge. Senza tali condizioni, si rientrerebbe nella situazione di conclamata illegittimità costituzionale, sanzionata dalla sentenza della Corte Cost. n. 218/1994, con le conseguenti sanzioni di carattere patrimoniale a carico del datore di lavoro.

Vincenzo Macrì


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