Per Abbonati

Dopo iddu, la guerra della Cupola

di Rita Cavallaro -


La cattura dell’ultimo dei padrini riapre la scacchiera del comando in Cosa Nostra. Perché se con la fine dell’era di Bernardo Provenzano la leadership era passata automaticamente nelle mani del suo erede Matteo Messina Denaro, ora l’arresto del capo dei capi apre un nuovo scenario, che di fatto rappresenta un’incognita anche per gli esperti di mafia. Cosa Nostra cambia volto e vede più pedine muoversi sulla scacchiera del comando. Con una modalità differente rispetto alla guerra del passato, quando il clan dei palermitani perse terreno in favore di quello dei Corleonesi, le nuove leve della fine degli anni Settanta che imposero il loro dominio attraverso la strategia stragista. Erano gli anni in cui, a Palermo, si contava un morto al giorno, sparato in mezzo alla strada. Finché la triade Bernardo Provenzano, Totò Riina e Matteo Messina Denaro decisero, forti delle coperture di pezzi dello Stato, che l’asticella andava alzata. Che i proiettili non bastavano più, che il sangue doveva scorrere e fare più rumore, che era ora di passare al tritolo, di mostrare al Paese la forza di quell’Onorata Società con le sanguinose stragi che di onorevole non avevano nulla. Decise a tavolino e tese a dare un messaggio chiaro: “È Cosa Nostra”. E nessuno sarebbe stato al sicuro, se bastava azionare un pulsante per far saltare in aria chi la mafia la combatteva, come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. E in pochi si sarebbero permessi di diventare pentiti, se quei diavoli non si sono fermati neppure davanti all’innocenza del piccolo Giuseppe Di Matteo, strangolato e sciolto nell’acido perché suo padre Santino aveva deciso di collaborare nella lotta alla mafia. Un drammatico capitolo della storia d’Italia andato avanti per decenni, finché i boss stragisti non sono man mano caduti. Prima Totò Riina, preso il 15 gennaio 1993 mentre si spostava con la macchina a Palermo. Poi il capo dei capi Bernardo Provenzano, acciuffato dopo una lunga latitanza l’11 aprile del 2006 in una masseria di Corleone. Da allora lo scettro era nelle mani di Matteo Messina Denaro, che ha attuato una politica volta non più a prendersi pezzi del territorio attraverso il terrore, ma ad assumere il controllo di settori dell’economia. La nuova strategia era volta ad accumulare ricchezze, ancora non quantificate, e continuare a restare al vertice attraverso un sistema di condivisione di parte del denaro. In questi anni il boss dei boss, avvalendosi di una rete di prestanome e fiancheggiatori, ha costruito un impero finanziario. Parte del tesoro di Messina Denaro è finito nella mani dello Stato, grazie alle incessanti operazioni antimafia che hanno consentito agli inquirenti di confiscare, pezzo per pezzo, centinaia di milioni di euro riconducibili al boss, che aveva investito nell’eolico, nell’edilizia, nei supermercati, nelle costruzioni e perfino in affari in Venezuela. In trent’anni di latitanza ammonta a 4 miliardi la somma sottratta al capo di Castelvetrano e ai suoi prestanome. I quattro miliardi, però, sarebbero solo la punta dell’iceberg di un sistema che, in quella fetta della Sicilia, diventa ora l’eredità per chi prenderà il comando della nuova mafia. Con la cattura dell’ultimo padrino e la fine dell’era della stragista, infatti, cambia anche la struttura dell’organizzazione verticistica. La caduta del clan dei Corleonesi, difatti, riporta il potere nel luogo d’origine, il clan dei palermitani. Attualmente sono otto i mandamenti di Palermo, composti da 33 famiglie, nessuno dei quali detiene un’egemonia indiscussa sul territorio, ma “coabitano” sulla base di una suddivisione di influenze sulle diverse zone, reinvestendo i capitali derivanti dalle attività illecite. Questo nuovo assetto è stato certificato dalla Direzione Distrettuale Antimafia, che nell’ultima relazione sottolinea come “Cosa Nostra potrebbe, nel tempo, rimodularsi secondo una struttura non più verticistica ma tendere ad un processo più orizzontale caratterizzato dal riassetto degli equilibri tra le famiglie dei diversi mandamenti in assenza di una struttura di raccordo di comando al vertice. Questa criticità derivante dalla presenza di nuove figure di spicco che si innalzano a capi, sebbene non sempre riconosciute come tali dagli anziani uomini d’onore detenuti o da poco tornati in libertà”, si legge, “potrebbe, nel tempo, originare problemi di convivenza per le difficoltà generazionali esistenti tra coloro che sono ancorati alle tradizionali regole e coloro che sono meno propensi a riconoscere gli autorevoli vertici del passato”. Insomma, non una guerra tra clan che si sparano per prendere il comando di tutta la mafia, ma nuove leve in subbuglio per affermare regole e assetti che rappresentano una rottura con il passato e creano le condizioni per il passaggio a una mafia 2.0. In questo scenario perdono quota le voci che indicano quale probabile erede del boss Giovanni Motisi, il 64enne palermitano soprannominato U pacchiuni (il grasso), considerato uno dei killer al soldo di Totò Riina e inserito nell’elenco dei quattro latitanti più ricercati in Italia. Il modello a cui i nuovi picciotti si ispirano è quello della ‘ndrangheta calabrese, che ha avuto la forza, abbandonando le faide e favorendo gli accordi tra famiglie, di diventare la più potente organizzazione criminale italiana transnazionale, capace di contrattare da pari a pari con i cartelli colombiani.

Torna alle notizie in home