Cultura & Spettacolo

Due preziosi manuali a cura di GiULiA Giornaliste Unite Libere e Autonome

di Redazione -


Come si scrive di violenza subita da donne o di gare sportive dove concorrono atlete? Come evitare, in particolare nella carta stampata, nelle radiotelevisioni e nel web, stereotipi o addirittura errori grammaticali che, volenti o nolenti, spesso continuano ad alimentare quella cultura sessista che è alla base di tanti e purtroppo frequenti fatti di cronaca? Siamo nell’era del digitale nella quale il corretto uso delle parole e le regole dell’informazione nel trattare argomenti “sensibili” (rispetto dei minori e del “genere”, privacy, diritto di cronaca) sembra abbiano perduto il loro significato iniziale per assumere quello di completa libertà di espressione. La lingua italiana, è noto, riconosce ad ogni parola un “genere” (maschile, femminile, neutro) attribuito ad ogni “cosa” da persone che avevano una visione del genere umano (al quale corrisponde quello animale e vegetale: l’albero è “maschio”, il melo, il frutto è “femmina”, la mela) che vedeva nell’uomo l’idea del potere e nella donna quella della subordinazione all’uomo. Ciò ha portato, di conseguenza, alla definizione dei ruoli istituzionali, delle professioni e dei mestieri al maschile o neutra e al femminile le attività di supporto. Concetti non ancora completamente superati visto come il “genere femminile” viene utilizzato nell’informazione anche se le donne, sia pure non da molti anni, hanno potuto accedere a tutte le professioni e, superando atavici pregiudizi, a tutte le discipline sportive. Conseguenza logica dovrebbe essere il declinare le parole al maschile o al femminile in relazione al soggetto al quale sono riferite: maschile se il soggetto è uomo, femminile se è donna. Con la pubblicazione degli ultimi due “Quaderni Murialdi”, n. 4 – “Donne Sport e Media. Idee guida per una diversa informazione” e n. 5 – “Stop violenza. Le parole per dirlo” (Edizioni All Around, Collana Fondazione sul giornalismo “Paolo Murialdi”, rispettivamente pag. 70 e pag 85, Euro 10,00 ciascuno),  l’associazione GiULiA (acronimo di Giornaliste Unite Libere e Autonome),  attraverso contributi di esperte che hanno effettuato una approfondita indagine sui media, denuncia le ingiustizie che ogni giorno le donne subiscono per l’uso improprio delle parole.  La discriminazione linguistica della donna contribuisce ad alimentare lo stereotipo della “inferiorità femminile” che è alla base di molte forme di violenza. Ancora oggi per molti giornalisti, e anche giornaliste, basta guardare i titoli dei giornali, le professioni, se declinate al femminile, sembrano perdere autorevolezza. Per questo GiULiA ritiene necessario, con la pubblicazione dei due volumi, contribuire all’educazione di chi fa informazione attraverso i media (carta stampata, radio, televisione, blog, social), di chi conduce programmi radiotelevisivi anche di intrattenimento, di chi legge o ascolta, all’uso corretto di parole che non sono abituati ad usare (avvocata, poliziotta, notaia, ministra, ingegnera, sindaca, ecc.) e all’uso dell’articolo in caso di professioni “neutre” che non possono essere declinate al maschile o al femminile (la giornalista, la presidente, la giudice, la farmacista, la pediatra, ecc.). 

L’educazione e la formazione hanno, per GiULiA, un ruolo cruciale nella “definizione” del linguaggio troppo spesso frutto di retaggi culturali e veicolo di pregiudizi radicati. Nel racconto di violenze subite da donne, ad esempio, vengono usati spesso termini che lasciano intravedere nel loro comportamento una possibile “colpa” o comunque un attenuante al comportamento del loro aggressore, “residui di una morale dove sopravvivono il delitto d’onore, la pena per l’adultera, il diritto maritale che l’informazione dovrebbe contrastare non amplificare” (“Uccisa dal fidanzato, voleva lasciarlo”; “Ho ucciso Michela, l’amavo tanto”) o la vittimizzazione del colpevole (Avellino, perde il lavoro uccide l’ex moglie e si spara). Anche nelle cronache sportive le atlete dovrebbero essere “trattate” come i loro colleghi maschi, evitando improbabili pregiudizi, vezzosi diminutivi o riferimenti estetici, per il loro rispetto e per quello del pubblico interessato esclusivamente allo spettacolo della competizione (Mondiali di calcio femminile. “Le azzurrine avanti: rimontata l’Australia”; Tiro con l’arco: “Il trio delle cicciottelle sfiora il miracolo olimpico”; Formula 1: Ecclestone, sulle donne in F1, “Non sarebbero in grado”). Anche nella scelta delle immagini che “illustrano” gli articoli le donne dovrebbero apparire esclusivamente come atlete: una testata giornalistica, per l’articolo “Sport: aumentano le donne che giocano al calcio, ora sono il 2%”, ha scelto come foto quella di un gruppo di dieci ragazze nude insaponate che, tutte insieme, fanno la doccia. E’ evidente che è sempre più necessario continuare e rafforzare le azioni preventive di sensibilizzazione nel sistema educativo promuovendo in tutti gli ambiti (scolastici, lavorativi) cambiamenti culturali che portino a risultati tangibili nell’uso dei termini che distinguono i “generi”. Obiettivo raggiungibile solo attraverso efficaci campagne di sensibilizzazione che favoriscano una vera e propria rivoluzione culturale. Con queste pubblicazioni, scrive la giornalista Silva Garmabois, Vice presidente associazione GiULia giornaliste, intendiamo ancora una volta “rivendicare fortemente il ruolo e il valore dell’informazione, strumento di cultura che aiuta a sviluppare il senso critico della società e la democrazia dei Paesi. 

E oggi siamo convinte che questa cultura passi anche dal rispetto delle donne e della loro dignità”. In appendice ai due libri sono pubblicati, rispettivamente, la “Carta dei diritti delle donne nello sport contro la discriminazione” e il “Manifesto Media Donne Sport” e le norme di legge e le Carte di indirizzo relative alla violenza sulle donne (“Doveri deontologici dell’informazione” e “Decalogo IFJ) e il “Manifesto delle giornaliste e dei giornalisti per il rispetto e la parità di genere nell’informazione”.  

Vittorio Esposito

 


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