Cultura & Spettacolo

E luce fu su Mendes

di Nicola Santini -


Il virus ha contagiato già Cuaron e anche Steven Spielberg.
Quello che quando arrivi a un certo punto della carriera nel quale hai raccontato mondi molto lontani dal tuo, poi ti vien voglia di riconciliarti con una parte del tuo vissuto e di raccontarla al tuo pubblico. I primi due ci sono andati dritti dritti con quello scenario intimo e personale moooolto autobiografico. Mendes ha immerso tutti noi nell’aria che si respirava, in quella luce, in quei toni degli anni ’80 collocandoci nei pensieri, in luoghi non tanto familiari quanto immaginabili, comprensibili a chi quegli anni li ha vissuti, e realizzando un film godibile, anche se diverso dai suoi precedenti.
Quando è così, passatemelo, ben venga il virus.
Empire of Light infatti è, dunque ambientato negli anni ’80. Il più grosso si svolge in un cinema, quello in cui lavora Hilary, interpretata da una meravigliosa e azzeccatissima Olivia Colman che si innamora di Stephen, che ha il volto di Michael Ward, quando è già impigliata in una relazione poco adrenalinica e clandestina con il suo datore di lavoro, il proprietario della sala, ossia Colin Firth. Stephen è assai più giovane di lei ed è di origini africane, cosa che comunque veniva notata e fatta pesare specie se si pensa a Margate, cittadina costiera nell’estrema punta meridionale della Gran Bretagna, nel 1981.
Apprezzabile il non soffermarsi della storia sulla solita tiritera dello stigma sociale con i soliti temi della lotta di classe con trionfo dell’amore o peggio ancora con il dramma finale. Non ci si sofferma, ma ci si fanno i conti. E il tutto funziona meravigliosamente.
Tutto ruota intorno al cinema, che è la cosa che al regista interessa maggiormente. E del suo ruolo che non è solo uno sfondo.
Chiaramente la luce è la grande protagonista. A volte, va detto, anche a scapito della verosimiglianza, a volte, va ridetto, c’è un po’ quella forzatura, però ci sta: è cinema non è reality, quindi vorrei sapere cosa c’hanno i critici da attaccarsi a certe forzature che sono funzionali, anche se a volte ne fa le spese la scrittura che è un pochino scolastica. Insomma, quel che succede dopo, se qualche film lo hai visto, un po’ te lo immagini, ma non tutte le storie sono fatte per il colpo di scena.
Qui, si apprezza anche l’equilibrio che fa sì che, con una dosatissima ventata d’ironia, quello che altrimenti rischiava di essere melò puro, sfuma sul romantico-drammatico rendendo il tutto molto più leggero e anche dolce. Di una dolcezza, per altro, per niente contemporanea e quindi più interessante da ricordare. In questo ha azzeccato tutto. Ritmo, sguardi, ombre.
Il cinema diventa così il luogo dove vivere se stessi senza curarsi di ciò che passa intorno, occupati unicamente a godersi l’attimo tra il primo e il secondo tempo e nel frattempo ci si coccola pure l’occhio intiepiditi dalla storia ma riscaldati da cotanta fotografia, certi sguardi tra gli interpreti e una regia che ti porta proprio lì, tra le pulsazioni di questa donna annoiata ma non Madame Bovary, che decide di sbattersene di certi schemi e di farsi sbattere come si deve, combattendo non il benpensiero ma la noia e la solitudine.
Anche quelli erano gli anni ’80, con lo sdoganamento di certi schemi sociali visto da lontano, possibile solo nella penombra di una sala, ma sentito, desiderato, non come una mera trasgressione, ma come una naturale evoluzione di un mondo che stava cambiando anche nelle province più remote di una Gran Bretagna
E pur arrivando chiara la consapevolezza del tempo che passa, del divario razziale che guai a dirlo oggi, che l’età non è comunque un’opzione e che l’amore è eterno se tutto va liscio e basta, non c’è forzatura nella malinconia, e c’è quella volontà di distiguere a dovere il rimpianto dal rimorso, tutto a sfavore del primo e tutto grande alla resa incredibile che la protagonista ha saputo dare al suo personaggio. E il fatto che il film non sia autobiografico nella storia ma nel pensiero critico, fa sì che i livelli di lettura siano differenti e tutti pieni di senso: si leggono la sanità mentale, la crepa politica e sociale, il pensiero borghese che ammborbavano la Gran Bretagna del 1981, dove il cinema, con la sua capacità di estraneare le anime e le teste, troppo facilmente collegabili al cuore, aveva quel ruolo salvifico capace di portare la gente lontano.


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