Editoriale

Ecco di cosa ha bisogno la Sanità del Sud: la storia di un nostro lettore

di Redazione -


Sono le 8.30 e il caldo sembra dare un po’ di tregua. Sono ad Ariano Irpino, 817 metri di altezza e un’aria più sana della Roma che ho lasciato ieri. Ho da poco effettuato le procedure di ricovero presso il locale nosocomio poiché mi hanno riscontrato, qualche settimana fa, un problema di natura gastrointestinale, quindi bisogna operare per evitare complicazioni. Sono sempre più frequenti questi problemi, dicono, nella società moderna che gode di benessere e benessere, in questo caso, significa anche cibo spazzatura. Sono stato accolto da Michelina e Maria che hanno compilato i primi incartamenti e hanno proceduto al tampone covid e al prelievo di sangue. Nel trascrivere i dati anagrafici hanno sbagliato la mia data di nascita, hanno letto 2024 anziché 1980 e sono scoppiate a ridere dicendo che il 2024, in effetti, deve ancora arrivare. Intanto Enzo, il caposala, mi chiedeva se avessi gradito un tè per colazione. Qui, in questo piccolo ospedale, si respira un’atmosfera intima, il personale conosce i pazienti e c’è un ecosistema umano che andrebbe studiato, approfondito. Mi hanno preparato il letto con lenzuola accuratamente sistemate e poi, nell’attesa di essere convocato per gli esami di routine preparatori, ho deciso di mettermi al desk per scriverle. Ariano Irpino è un punto strategico su un territorio vasto e molti servizi, come il presidio in cui sono ora, rappresentano l’area di confronto tra il cittadino – utente – paziente e lo Stato centrale. Inutile ribadirle, caro direttore, che un paese civile è quel paese che si prende cura di ogni suo cittadino partendo dalle aree più depresse e periferiche. Ecco, qui, ad Ariano Irpino, nell’entroterra del Mezzogiorno d’Italia, la realtà sociale è allarmante ma nonostante questa consapevolezza Michelina e Maria hanno sorriso e hanno reso la mia accoglienza meglio di quella in un hotel a 4 stelle. C’è un fattore umano straordinario, vivo, accorto, sempre presente. C’è un’infermiera, si chiama Marisa, che ha sempre una parola di conforto per ogni singolo paziente ed è di una cultura straordinaria. Parlando un po’ con questi operatori ho potuto evincere il loro sconforto nei confronti di una gestione amministrativa un assente e tutti, ora, sperano che con l’arrivo del nuovo direttore, Mario Ferrante, le cose possano cambiare.  “È bravo, severo ma bravo, e a noi questo serve” mi dice un’infermiera. In effetti in questa terra irpina il senso del rigore, del sacrificio e dell’onestà non manca, tutt’altro. Si legge l’amore per il lavoro e la sensibilità umana che si tocca fa dimenticare anche la mancanza di strumentazioni all’avanguardia. Pensi direttore, solo pochi giorni fa è stata inaugurata la sala con la risonanza magnetica, era attesa da circa 20 anni e ora, i pazienti oncologici, sperano anche nella radioterapia ma, a quanto si può ascoltare qui, in reparto, c’è molto scetticismo e si parla di anni per la realizzazione. Com’è possibile direttore? Com’è possibile non accogliere le istanze di questi pazienti e non riconoscere le competenze umane e professionali di questi operatori?

Sono oramai diversi giorni che sono qui, ricoverato, e sto affrontando un’esperienza personale forte. Ho scelto questa struttura perché conoscono la chirurga che mi ha operato, Annalisa lo Conte. Una giovane professionista che si è formata prima in Sapienza e poi in giro per il mondo. Oggi mette a disposizione, di questa gente, le sue competenze come lo fanno altri giovani professionisti che rischiano di scappare in luoghi dove c’è maggiore ascolto e servizi migliori. Ho conosciuto, poi, la dottoressa Cirillo Fernanda che è qui da diversi anni ed è un’esperta di rianimazione. Non ha affatto l’atteggiamento di un medico ma quello di una madre attenta e premurosa. Mi è stata accanto tenendomi la mano e questo, direttore, lenisce le sofferenze e aiuta a superare le paure.

Pensi direttore, questo ospedale risponde a un bacino di utenza di circa 200 mila cittadini. La morfologia del territorio, tipico collinare, rende difficile, soprattutto per i paesi più lontani, la possibilità di raggiungere la struttura nonostante sia l’unica. Continuando nelle mie conversazioni giornaliere, infatti, molti tra pazienti e operatori affermano tutti la stessa cosa: tante telecamere e tanti tagli di nastro ma qui, alla fine, manca tutto e si resta soli. Manca l’emodinamica, manca un punto nascite, manca un buon servizio di radiologia, manca un buon pronto soccorso. Qui – mi dice una dottoressa – ci mettiamo la faccia perché i pazienti li conosciamo; non siamo il Niguarda o il Policlinico di Roma che gli assistiti si conoscono giusto il tempo necessario, no! Qui ci incontriamo anche dopo aver affrontato la malattia e per questo vogliamo, noi medici, che questa struttura abbia delle buone capacità, basilari, per far fronte alle esigenze ordinarie della nostra comunità. Non vogliamo la piattaforma di cardiochirurgia – continua la dottoressa – vogliamo, ad esempio, una buona cardiologia che possa, poi, trasferire i pazienti in altri centri all’avanguardia ma che assicuri, subito, prestazioni semplici come un’angioplastica. Non è tollerabile che, nel 2022, nonostante il COVID e una nuova idea di medicina sul territorio, un ospedale di questa portata non possa garantire la nascita di un bambino. Come ci può essere allora sviluppo locale se non si può neanche nascere nella propria terra? – mi chiede la dottoressa. Non le so rispondere, in realtà non so rispondere a molte domande che in questi giorni mi pongono. Vede direttore, qui non si parla di PNRR o misure di governo, no. Qui si parla di sofferenza e si ascoltano le urla dei pazienti in corsia e non c’è tempo di discutere di politica o di come si possano affrontare le questioni amministrative, bisogna lavorare, punto. Un medico mi riferisce che è il quarto giorno che fa turni di 12 ore e sta pensando di lasciare questo posto e provare in una struttura nel centro nord. Gli dico di rifletterci e pensare a quanto sia più importante qui la sua missione che altrove ma, sinceramente, credo che valgano poco le mie parole osservando il suo volto stanco.

Come questa realtà sanitaria ce ne sono altre nel Sud Italia. Un Sud Italia che cura più con l’amore che con le nuove tecnologie; un Sud Italia che ancora oggi, nel 2022, è troppo lontano da un’Europa all’avanguardia nei servizi al cittadino. Allora chiedo a lei, caro direttore: che colpa hanno questi pazienti e questi professionisti lasciati soli e inascoltati? Mi risponda lei perché io proprio non riesco. Mi dica, direttore, quanto dureranno il coraggio e la dignità di questa gente? E mi dica, infine, la politica, dov’è la politica?

Questa lettera, che spero lei voglia pubblicare, la dedico a Irene, Raffaele, Michelina, Annalisa, Fernanda, Enzo, Marisa, Mina, Antonio, Giovanna, Guglielmo e tutti coloro che, quotidianamente, rappresentano una speranza verso chi soffre e che operano con alta professionalità e, soprattutto, con un’umanità che in nessun altro ospedale all’avanguardia credo si possa trovare.

Un paziente tra tanti


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