Editoriale

L’ITALIA DI SIOR INTENTO

di Tommaso Cerno -

Tommaso Cerno


Come nella fiaba di Sior Intento l’impressione che ormai fa l’Italia è quella di un Paese dove tutto è fuori sincro. E’ come se pezzi della nostra società e della nostra stessa nazione siano rimasti indietro, e noi, i governi, le istituzioni, l’economia ci muovessimo a vuoto. Incapace ormai di far ripartire il meccanismo perché gli ingranaggi sono spannati, fuori sede, e l’Italia si presenta come una macchina esausta. Solo le emergenze ci risvegliano. Il dramma e la morte dell’Emilia è solo l’ultima in ordine di tempo. Un’emergenza che mostra il suo lato oscuro, che ci fa guardare dentro questo motore in panne, dove si trovano tutti i sintomi che ormai rivelano la malattia Italia: ritardi, lavori non fatti, grandi proclami e zero cantieri, soldi mal spesi o restituiti. Passa perfino la voglia di accusare la politica, chi governa in questo momento quella regione, chicchessia, perché tanto lo vediamo e lo riconosciamo questo male cronico del benedetto Paese che amiamo e non rispettiamo. Il presidente Mattarella ha un bel dire all’anniversario della strage di Capaci. Parole sagge. Del tutto inutili di fronte a una realtà di segno opposto: una verità che ancora non ha fatto luce su tutti i lati oscuri della trama fra criminalità organizzata e Stato, che ogni giorno solleva dubbi e bugie, mentre noi piangiamo i nostri martiri senza essere in grado di cambiare una virgola davvero. Siamo al punto che un Paese che arresta dopo 30 anni di latitanza uno dei più feroci e importanti capi mafia della storia moderna come Matteo Messina Denaro si trova addirittura a festeggiare. Ci vuole molto sarcasmo. E poi al processo per il crollo del ponte Morandi, un disastro epocale, qualcosa di inimmaginabile in un Paese civile che si proclama democratico e che è la settima potenza del mondo, così come nulla fosse ci troviamo l’ex amministratore delegato dei Benetton che dice tranquillamente in aula che lui lo sapeva da 10 anni che quel ponte poteva cadere ma che forse per salvarsi la poltrona non ha detto niente a nessuno. Con la difesa che dice che non è attendibile. Come se potesse essere attendibile qualcuno che ha lasciato cadere un ponte, un viadotto di un’autostrada, mentre le macchine e i camion ci passavano sopra. Questo è il Paese in cui viviamo. Un Paese che ha perso il filo. Un Paese dove le emergenze, così come le polemiche, sono l’unica cosa che ci rimane. L’unica cosa che scalda il cuore, che ci spacca in fazioni, che ci vede litigare dalla mattina alla sera su chi ha più colpe in questo disastro. Senza renderci conto che perdiamo altro tempo e che proprio facendo così quell’ingranaggio finirà di spannarsi e non ricominciare più a girare. Mentre i salari saranno sempre i più bassi dell’Europa sviluppata, milioni di persone continueranno ad impoverirsi e arriverà il dossier di turno a spiegarci dalle alte sfere di Bankitalia o di qualche istituto analogo che sì, in fondo le cose non vanno poi così male e che è solo una sensazione di noi popolo italiano quella che questo Paese non lo riconosciamo più, non ci sembra il nostro, non quello per cui abbiamo sognato, studiato, lavorato, pagato le tasse, sperato. In tutto questo siamo in guerra e non abbiamo nemmeno il coraggio di dirlo. Prendiamo ordini e li eseguiamo, bravi più di tutti a trovare sempre il ritornello giusto per far sembrare una cosa un’altra. La guerra diventa la pace. Il futuro diventa il passato. Per poi sentirci dire fra qualche tempo che lo sapevamo. Come con quel Ponte maledetto, che ha ucciso ergendosi a simbolo macabro di questo fragile Paese che zoppica.


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