Elisa, a Venezia il cinema della colpa diventa la sfida della redenzione
Ci sono film che raccontano storie, e altri che aprono varchi. Elisa, il nuovo lavoro di Leonardo Di Costanzo tratto da un fatto reale, appartiene alla seconda categoria: non si limita a seguire la vicenda di una donna condannata per avere ucciso la sorella, ma si inoltra in un territorio in cui cinema e giustizia si incontrano, generando domande più che risposte. Barbara Ronchi, con la sua recitazione asciutta, trattenuta, priva di qualsiasi compiacimento, è il corpo e il volto di questo enigma. Elisa è in carcere da dieci anni. Ha commesso un crimine atroce, apparentemente senza movente, eppure sembra ricordarne poco o nulla. Un vuoto di memoria che è anche un rifiuto di coscienza. Quando decide di incontrare il criminologo Alaoui (Roschdy Zem), il velo comincia a sollevarsi. Il dialogo serrato tra i due, fatto di silenzi più che di parole, diventa il nucleo drammatico del film. Non si tratta di scoprire la verità giudiziaria, quella è già stata stabilita, ma la verità interiore, che passa per l’accettazione della colpa. Di Costanzo, già autore di Ariaferma, non abbandona l’universo carcerario, ma sposta l’asse. Se nel film precedente la reclusione era spazio di relazioni sospese, qui è luogo di confronto con l’abisso. Elisa non è la vittima di un errore giudiziario, come accadeva in Portobello di Bellocchio, di cui abbiamo scritto pochi giorni fa, sul caso Tortora. Non chiede assoluzioni. È colpevole, e il film non lascia margini di dubbio. Ma è proprio in questo scarto che si inserisce il discorso sulla giustizia riparativa: cosa significa punire chi ha commesso un atto irreparabile? Quale spazio resta per il pentimento, per la coscienza, per la possibilità di guardarsi dentro e di tentare un riscatto? Il regista dichiara di essersi ispirato agli studi dei criminologi Adolfo Ceretti e Lorenzo Natali, che da anni lavorano sui processi di ricomposizione tra colpevoli e vittime. È un terreno fragile, spinoso, che il cinema affronta con la sua arma più potente: lo sguardo. La macchina da presa non giudica, non assolve. Si limita a osservare. In questo senso, Elisa è un film rigoroso, che rifiuta la spettacolarizzazione del delitto e sceglie la via della sobrietà. Le scene sono essenziali, i dialoghi ridotti all’osso, la fotografia cupa, mai enfatica. Tutto concorre a mettere lo spettatore davanti a un corpo e a un volto che portano inciso il marchio della colpa. Ronchi dà a Elisa una fisicità che è già racconto. Le sue mani ferme, lo sguardo basso, la voce che sembra spegnersi a metà frase: sono i dettagli che costruiscono il personaggio, molto più delle parole. In controluce, emerge un tema ancestrale: Caino e Abele, il fratricidio come archetipo del male che abita l’umanità. Ma qui non c’è simbolismo, non c’è allegoria. C’è una donna, sola, che deve fare i conti con la violenza che ha scatenato. Il rischio evidente era quello di cadere nel didascalico, o al contrario nel compiacimento morboso. Di Costanzo evita entrambi i pericoli, grazie a una regia che si affida al pudore e a un’attrice che sa restituire complessità senza mai forzare la mano. Ne risulta un film che interroga senza risolvere, che mette lo spettatore di fronte a domande scomode: fino a che punto possiamo provare empatia con il colpevole? Possiamo accettare che la giustizia non sia solo punizione, ma anche tentativo di ricucitura? In un’Italia segnata da decenni di giustizialismi e processi mediatici, Elisa suona come un monito. Non basta dividere il mondo tra colpevoli e innocenti, tra chi commette crimini e chi no. Esiste una zona grigia, fatta di responsabilità e dolore, che il diritto da solo non può esaurire. È qui che la giustizia riparativa, e il cinema che la racconta, trovano il loro senso più profondo. A Venezia 82 Elisa ha trovato il suo spazio naturale. Non è un film che cerca il consenso facile, non cerca lacrime né applausi. Chiede attenzione, chiede ascolto, chiede tempo. È questa la sua forza: riportare il cinema al compito originario, quello di guardare l’uomo nella sua interezza, senza veli né consolazioni. Alla fine resta lo sguardo di Elisa, che non implora e non sfida. Uno sguardo che ammette, accetta, riconosce. È il senso del film: la giustizia non è mai definitiva, è un processo che continua, dentro e fuori il carcere, dentro e fuori di noi.
Torna alle notizie in home