Economia

Non solo dazi: “Euro forte può farci molto male”

L'Ue politica in depressione, i mercati fanno spallucce: Milano+0,27%

di Cristiana Flaminio -


Smaltita la rabbia dei dazi al 30%, è arrivato il giorno dei numeri, delle analisi, dei problemi che si ridimensionano e di un euro sempre più forte, tanto che può davvero iniziare a farci male. I mercati finanziari, che ieri hanno aperto in ribasso, hanno ripreso smalto e limitato le perdite. Un po’ come accaduto a Milano dove, sull’onda dei bancari in crescita con le lettere da Bruxelles sull’Ops Unicredit-Bpm, Piazza Affari ha chiuso addirittura in rialzo dello 0,27%. Da Bruxelles, in mancanza di meglio (e cioè dopo aver annunciato clamorose ritorsioni e contromisure che, chiaramente, restano gelate fino al 1° agosto), si fanno i conti. Leopoldo Rubinacci, vicedirettore della Direzione Generale per il Commercio della Commissione Ue, in audizione alla commissione Commercio internazionale del Parlamento europeo, ha dato le cifre: “La relazione transatlantica con gli Usa rappresenta il 17% del commercio dell’Ue Ora che abbiamo le nuove misure statunitensi in vigore in termini di livello di dazi, ci troviamo di fronte al 50% su acciaio, alluminio e derivati, al 25% su auto e componenti per auto, oltre al dazio Npf e a una tariffa universale del 10% per il momento che il Presidente Trump ha indicato in una lettera che salirà al 30% il primo agosto. Questi livelli di dazi coprono il 70% delle esportazioni dell’Ue verso gli Stati Uniti. In altre parole, 380 miliardi”. E, come si dice, la metà già basterebbe. Ma Rubinacci va oltre: “Ma ci sono un certo numero di indagini in corso da parte dell’amministrazione statunitense ai sensi della sezione 232 del Trade Expansion Act del 1962, le sette ora in totale, che riguardano aerei commerciali, motori a reazione e componenti, prodotti farmaceutici, semiconduttori, minerali essenziali, rame, legname e componenti per camion, se l’amministrazione, se il Presidente Trump decidesse di imporre dazi anche anche su questi prodotti, la quota delle esportazioni colpite salirebbe al 97%”. Insomma, saremmo di fronte a una compressione dei rapporti commerciali come non se ne ricordano da decenni. Trump, da parte sua, va avanti come un treno. Ha una base da accontentare, quella volubile di Maga. Ha dei funzionari esosi da soddisfare, ha degli interlocutori, gli europei, che da atterrire ancora di più per spuntare chissà cos’altro e che sperano di tirargliela in saccoccia con l’euro forte e il sogno di farne valuta di riserva internazionale. E sempre con la solita strategia. Bastone e carota: “Gli Stati Uniti sono stati derubati sul Commercio (e la Difesa) da amici e nemici per decenni. Ci è costato trilioni di dollari e questo non è più sostenibile, non lo è mai stato”.

Ma la vicenda dazi, in realtà, nasconde (ben) altro. E lo spiega a L’Identità, l’economista Marco Mele, professore associato di politica economica e amministratore Unico della Sfbm, del gruppo Gse. A cominciare da quella dei deficit commerciali: “In realtà ci troviamo di fronte ai cosiddetti deficit permanenti della bilancia commerciale statunitense la cui causa trova origine in determinanti molto più complesse. Dal 1973, ossia dalla fine del sistema di Bretton Woods, il differenziale tra export ed import degli Usa registra un valore negativo ma questa situazione ha permesso al dollaro di divenire valuta di riserva internazionale. Non credo che l’Europa sia la causa principale di questa situazione, anche perché le uniche politiche comunitarie a protezione delle merci interne sono le barriere non tariffarie e poi, sulla voce servizi, l’Europa registra un deficit verso gli Usa di circa 150 miliardi. In parte, quindi, c’è una compensazione”. La reazione di Bruxelles rischia di aggravare la situazione: “La scelta dei controdazi innescherebbe una guerra commerciale, il risultato sarebbe una distorsione del commercio internazionale con inflazione importata per gli Stati Uniti e minor crescita per le imprese europee. L’unica via d’uscita consiste nel concordare una riduzione importante dei dazi statunitensi, meglio ancora sarebbe il loro annullamento, lavorando proprio su quelle tariffe non commerciali europee e aumentando, con accordi, l’import del Gnl dagli Usa all’Europa in modo da compensare parte del deficit commerciale statunitense”. E se il problema, invece che le tariffe in sé, fosse altrove, magari nel tasso di cambio? Ecco, Mele è sicuro l’euro forte è un problema serio: “Il vero problema è l’apprezzamento dell’euro sul dollaro. Un euro forte, come quello attuale, sta già minando l’export europeo dal momento che le merci risultano più costose. Se, per ipotesi, la Fed decidesse di attuare una politica di riduzione dei saggi di interesse, si andrebbe a deprezzare ancora di più il dollaro facendo aumentare l’export statunitense a danno di quello europeo. Quindi, oltre a preoccuparci dei dazi, dovremmo preoccuparci di instaurare una politica del cambio europeo, ad oggi totalmente assente”.


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