Cultura & Spettacolo

Feste e giochi nelle corti medievali, la Tener Corte bandita

di Redazione -


di MICHELE ENRICO MONTESANO
Contrapposta alla comicità del popolo v’era quella delle corti. Era consuetudine infatti riunirsi tra nobili e dare spettacolo. Tra le feste, o giochi, più in voga c’era il cosiddetto Curiam habere. L’usanza, che prendeva il nome di Tener Corte bandita, consisteva nell’inviare un bando presso le città e le corti vicine, con lo scopo di attirare altri prìncipi e altre nobiltà. All’interno di queste feste si faceva uso di giochi militari, si banchettava e partecipavano anche mimi, giocolieri e istrioni che con i loro giochi e le loro canzoni intrattenevano e dilettavano il pubblico. Un pubblico completamente diverso da quello che partecipava alle celebrazioni volgari. Probabilmente non erano accolti con lo stesso fervore che si riservava loro per le feste plebee e pagane, tuttavia venivano congedati con una classe e una considerazione che raramente sperimentavano nella loro vita. Durante queste feste, infatti, accorrevano nobili da tutte le parti e avevano l’usanza di portare in dono ai signori ospitanti regali di vario genere: vestiti elegantissimi, cavalli, argento, che a loro volta venivano donati agli artisti, ai musici e ai buffoni. Per rendercelo più chiaro usiamo i versi del poeta Benvenuto Aliprando descrivendo la gran corte tenuta a Mantova nel 1340 nella quale i Gonzaga celebravano i matrimoni che investivano la loro casata:

Tutte le Robe sopra nominate
Furon in tutto trent’otto e trecento,
A buffoni e Sonatori donate.
Otto giorni la Corte si durare.
Torneri, Giostre, Bagordi facia,
Ballar, cantar’, e sonar facean fare.
Quattrocento Sonator si dicia
Con Buffoni alla Corte si trovoe.
Roba e danari donar lor si facia.
Ciascun molto contento si chiamoe.

Non c’erano solo i buffoni – che potevano permettersi di dire al signore di turno “qualche verità ridendo, che niun altro forse avrebbe osato di porgere alle lor delicate orecchie”, come il Gonella – ma anche personaggi di corte, letterati, che affinavano l’arguzia, con costumi più gentili e pacati rispetto al volgare intrattenimento delle feste contadine e pagane. Alle gioie sfrenate e orgiastiche delle celebrazioni plebee rispondeva il pacato cortese e sorvegliato diletto. Si accompagnavano insieme ai buffoni, uomini di corte, personaggi vicini agli ideali cavallereschi. Lo spirito prevaleva sulla forza e la potenza. Sia nel carnevale e nelle altre feste popolari, come nelle feste di corte, l’intrattenimento comico riscuote molto successo, seppur in forme distinte. Più grottesca nelle feste popolari, più satirico nelle feste di corte. In entrambe però i frammenti comici conservavano ancora una funzione pratica, di festa. Servivano di contorno per qualcosa che sarebbe accaduta comunque. Adornavano ora feste, ora matrimoni. Non erano ancora funzione in sé, come poi diventeranno anche grazie alla Commedia dell’Arte, che proprio qui pianta le sue radici. Radici che crescono grazie ai caratteri dell’irreale, del fantastico e di sospensione della realtà (tanto che i buffoni, come scritto, potevano permettersi di dire verità “che niun altro forse avrebbe osato di porgere”). È da qui che la Commedia dell’Arte prende i toni grotteschi: deformando visi, esasperando le relazioni umane. Non ci sono anime e persone ma maschere e situazioni comiche. Codificando in tal modo, per sempre, certe dinamiche. Sublimando situazioni, diventando universale e immortale.


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