Politica

PRIMA PAGINA – Fratelli coltelli e quel duello all’ultimo voto Conte-Schlein

di Domenico Pecile -


Tutto avrebbe potuto immaginare quel 26 febbraio di un anno fa quando Schlein fu incoronata segretaria del Pd – grazie alle primarie adesso sconfessate – ma non che a distanza di undici mesi il suo veliero ebbro, di buoni propositi e di legittime smanie di revanche dentro e fuori il partito, si sarebbe ritrovato nelle secche del porto delle nebbie. Non solo, ma quello che sarebbe dovuto diventare il simbolo della riscossa, ovvero le elezioni europee, si sta trasformando in una corsa a ostacoli verso un traguardo insidioso che potrebbe anche decretare il suo fine corsa alla guida dei dem.

Già, il veliero è fermo e per di più imbarca acqua, sia che si parli di campo largo, oppure di guerra, sia che si affronti il problema del fine-vita oppure o che si parli di rapporti fra le varie anime del partito a cominciare dall’incipiente insofferenza della componente più cattolica e più riformista. Nemmeno la sua richiesta di candidarsi alle europee è andata liscia. Anzi, ha scatenato una ridda di pareri nettamente contrari, a cominciare da quello del padre nobile dell’Ulivo, Romano Prodi, che pure viene annoverato tra i suoi pretoriani. Così, quello che doveva apparire come un braccio di ferro in rosa con il premier Giorgia Meloni, per Elly Schlein rischia di trasformarsi in una trappola politicamente mortifera.

Una gara, quella che vorrebbe accettare, che la vede nettamente svantaggiata in partenza. E non soltanto perché diversi apparati del partito – a cominciare dalle donne – mugugnano esasperati e le chiedono di archiviare per tempo quell’Idea, ma soprattutto perché alle europee ognuno fa corsa in proprio e Schlein dovrà vedersela con la concorrenza agguerrita del M5S. Certo, in queste ultime ore ci sono segnali di distensione tra i due competitor della Sinistra. Resta però il fatto che – complice appunto il sistema proporzionale che vige a Bruxelles – il vero scontro è rimandato alle politiche, ammesso e non concesso che da qui al voto nazionale il Centro sinistra non partorisca un soggetto federatore.

Ipotesi per ora più che remota se è vero che Giuseppe Conte ieri ha avuto modo di dire che non gli interessa nessun tipo di campo largo e che insegue, invece, un “campo gusto”. Aggiungendo parole al vetriolo: “Schlein federi pure le correnti Pd, noi non ci facciamo federare”. Sì, due fidanzatini in piena crisi tra strappi, litigi, brindisi e riappacificazioni. Schlein le tenta tutte e si affida anche a Speranza (“Il Covid ha dimostrato che governare assieme al 5S si può”) pur di inchiodare Conte al tema della possibile intesa. E quando le chiedono del campo largo, risponde in inglese (tanto per essere nazional popolare) “The sooner the better” (prima è, meglio è).

Così, alcuni temi divisivi come il duello Biden-Trump (Conte, è l’accusa del Pd, non ha ancora deciso per chi tifare) o il nodo della transizione green vengono soltanto sfiorati per evitare altra fuoco che cova sotto la cenere delle reciproche idiosincrasie. Insomma, tra i due litiganti, a godere – soprattutto nella componente degli ex – potrebbero essere i centristi. La vicenda della consigliera regionale Anna Maria Bigon, il cui suo voto determinante per la bocciatura della “legge Zaia” sul fine vita in dissenso dal Pd le è costato la destituzione dall’incarico da vicesegretario di Verona, è soltanto la punta dell’iceberg del malcontento cattolico dentro il Pd. Ed è lì che i vari Calenda e Renzi e, perché no, anche Tajani fiutano la possibilità di catalizzare il malcontento dei cattolici dem.

Anche perché – altro micidiale autogoal – la Schlein, rispolverando una disciplina di partito anacronistica e inopportuna quando si parla i diritti, ha definito il voto della Bigon “una ferita”. È bastato quel voto per mettere in luce il malessere cattolico. I dirigenti Pd assicurano che nessuno traghetterà nel centro degli ex Pd, rischiano però di fare i conti senza l’oste, pardon, gli elettori.


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