Attualità

FREGATURA Autonomia

di Ivano Tolettini -


Ma con l’autonomia o la devoluzione che dir si voglia, chi ci guadagnerà e chi ci rimetterà in questa benedetta nazione? O come nel paese dei balocchi ci guadagneremo tutti perché diventeremo più efficienti nel distribuire le risorse, per definizione scarse, grazie a una burocrazia che all’improvviso diventerà virtuosa? Quante materie delle 23 previste in Costituzione saranno trasferite dal centro alla periferia, cioè da Roma alle Regioni, e quante invece rimarranno nella Capitale? Quattro come ipotizzano i leghisti di matrice salviniana per far digerire l’autonomia ai centralisti di Fratelli d’Italia oppure 23 come chiedono i massimalisti zaiani per venire incontro ai veneti che cinque anni fa hanno risposto in massa al referendum? Sono giornate decisive per la grande sfida, visto che entro la fine dell’anno Roberto Calderoli, ministro per gli Affari regionali e le autonomie, vuole avere lo strumento per stabilire una buona volta per tutte i cosiddetti “LEP”, cioè i Livelli Essenziali delle Prestazioni, i costi e i fabbisogni standard. La partita con il trasferimento delle competenze è proprio questa, perché fino a quando non saranno chiari i numeri l’autonomia sarà “una fregatura” e non “una opportunità” come temono molti amministratori del Sud. Tuttavia, proprio ieri il vicepresidente della Campania, Fulvio Bonavitacola, ha spiegato di avere «visto che nel disegno di legge di bilancio il governo ha introdotto delle disposizione un po’ farraginose o barocche, che però segnano un dato positivo: dare finalmente identità ai Livelli Essenziali di Prestazione, che è la premessa per ragionare su forme più spinte di autonomia regionale. Credo che su questa base si possano fare dei passi in avanti. Noi non ci sottraiamo e credo che il consiglio di oggi abbia registrato una sostanziale unità su questo punto». Chi ha le idee chiare sul percorso che porta all’autonomia è il prof. Andrea Giovanardi, ordinario di diritto tributario all’Università di Trento e componente della commissione veneta che tratta per la devoluzione con Roma. Il punto focale è determinare “l’attuale costo che lo Stato sostiene per le funzioni da trasferire alle Regioni perché ad oggi non ci sono con immediatezza”. Capite bene che se dopo anni di discussioni non abbiamo ancora messo a punto questi parametri basilari la strada rimane impervia per una riforma condivisa. Le teorie si scontrano con la pratica del dare e avere. Così non basta dire che attualmente per la sanità il Veneto spende 9,7 miliardi e l’Emilia Romagna 10, mentre la Campania 9,9 e la Puglia 7 miliardi; così come per la scuola la Campania spende 5,8 miliardi, il Veneto 4, la Puglia 3,6 e l’Emilia 3,9 miliardi, perché poi bisogna introdurre dei parametri per costi e fabbisogni standard medi che prevedono correttivi da riparametrare sulla popolazione con una sorta di stanza di compensazione qualora i calcoli sulla carta risultassero sballati. C’è poi la questione di chi finanzia che cosa con quali entrate dei territori. Allora si comprende perché dopo anni la strada è tutt’altro che in discesa perché le regioni meridionali temono di essere danneggiate. Ecco perché i Livelli Essenziali delle Prestazioni sono il cuore della riforma da condividere. Come non è sufficiente osservare che per i costi medi per abitante dei servizi sociali lo Stato spende per i veneti 440 euro mentre per i campani 838 euro a testa (487 per gli emiliani e 873 per i pugliesi), mentre per gli anziani Roma trasferisce a ogni veneto 1.948 euro e ad ogni campano la metà, 1.062 euro (1.134 euro per ogni emiliano e 738 euro per ciascun pugliese). Senza considerare che alla partita dell’autonomia la premier Meloni – che nelle regioni del Nord ha conseguito i risultati più brillanti – ha legato quella del presidenzialismo e di Roma capitale. L’obiettivo è entro il 2023. La bozza di riforma dell’autonomia è l’inizio perché i trasferimenti della spesa storica continueranno a essere la regola fino a quando non si esorcizzerà per chi suona la fregatura.


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