Garlasco, va in scena il processo mediatico: al diavolo le garanzie
Avviso ai lettori. Il processo mediatico è già apparecchiato. Con tutti i rischi. Al diavolo le garanzie per le persone coinvolte. A Garlasco, la povera vittima Chiara Poggi, il killer giudicato Alberto Stasi, l’innocente indagato (pre)colpevolizzato Andrea Sempio, e le rispettive famiglie, finiscono nel frullatore dei mezzi di comunicazione di massa. Sono protagonisti loro malgrado di un’ordalia giudiziaria che diciotto anni dopo la tragedia, (quasi) inevitabilmente alla luce delle nuove “prove” (in realtà indizi, ma tant’è), si trasforma in un clamoroso dibattimento pubblico che a fianco di una corretta e doverosa informazione, espone lo strumento della critica soggiogato dalla spettacolarizzazione della notizia. Soprattutto dai media televisivi. Con spalti e curve gremite di tifosi. Ma sul banco degli “imputati” rischia di finire prima di tutto la giustizia: inquirenti e giudicanti; polizia giudiziaria, consulenti e periti. Di ieri e di oggi. Oltre che naturalmente noi giornalisti.
L’avvocato Massimo Lovati, che tutela Andrea Sempio, attacca: “Chiara è stata uccisa da un sicario. Né Andrea né Stasi c’entrano col delitto. Non ci sono indizi contro Sempio”. L’avv. Antonio De Rensis, che difende Alberto Stati: “In quella casa non ha interagito una sola persona. Sottolineo di analizzare bene quando la Procura ipotizza che chi ha agito l’ha fatto in concorso con altre persone”. La Procura di Pavia un anno fa ha riaperto il caso a fronte di elementi portati dalla difesa Stasi che fanno riflettere, ma sono anche indizi che possono far depistare il giudizio. Ad esempio c’è l’impronta numero 6 che non è attribuibile né a Stasi né a Sempio. Sarebbe quella del killer ed è sullo stipite della porta d’ingresso della villetta. Per questo Lovati parla di un sicario. Ma pagato da chi? L’equilibrio per un cronista dev’essere il ferro del mestiere principale con cui, alla luce dell’esperienza, analizzare i fatti. Chi nelle aule di giustizia ha trascorso giornate intere per anni a raccontare processi, oltre ad avere partecipato come relatore a convegni sul processo mediatico – ne ricordo uno con l’attuale ministero Carlo Nordio all’epoca Procuratore aggiunto di Venezia -, organizzati dagli Ordini dei Giornalisti e degli Avvocati, non può che interrogarsi ancora una volta. Perché la lettura parziale dei dati, tanto più se incompleta e suggestiva, nei fatti pericolosa per la verità storica, trasforma il giornalista nella fase delle indagini in un potenziale falsificatore della verità giudiziaria, che senz’altro può essere fallace. Ci sono gli strumenti per correggerla. Di certo Sempio in certe ricostruzioni giornalistiche appare come il mostro da prima pagina, come avvenne con Valpreda e Tortora, e in tanti altri casi meno eclatanti. Non a caso dal 2006 nella Costituzione la colpevolezza deve essere oltre ogni ragionevole dubbio. Invece Sempio finisce nel tritacarne mediatico grazie alle fughe di notizie e indiscrezioni che ritagliano l’abito dell’(im)perfetto colpevole. Sappiamo bene che indizi letti in maniera unidirezionale, secondo le quotidiane imbeccate da parte di chi ha tutto l’interesse – in un processo di parti, non dimentichiamolo – a indirizzare l’opinione pubblica, portano a una stazione della verità che non è detto che collimi con una buona giustizia. Il giornalista deve esserne consapevole. Ho trovato didascalica l’intervista all’allora Gup di Vigevano, Stefano Vitelli, che assolse Stasi in primo grado perché non poteva condannarlo oltre ogni ragionevole dubbio. Il rischio che Sempio sia già per una parte dell’opinione pubblica il killer di Chiara – mentre in realtà è un cittadino innocente nei cui confronti non è ancora iniziata l’azione penale – è un pessimo servizio al giornalismo e alla verità giudiziaria dell’aula. Mi fa altrettanto riflettere leggere che il consulente della famiglia Poggi valuti le accuse dell’ormai famoso reperto 33, attribuito ad Andrea Sempio, come “una trovata mediatica perché quell’impronta sul muro è dubbia”. Non va taciuto nemmeno che l’accusa ha tutto l’interesse ad accreditare una lettura di parte di vecchi indizi rivalutati dalla medicina forense, così come far filtrare le riflessioni di Sempio in uno scritto: “Ho fatto cose davvero inimmaginabili”. Il timore di arrecargli un danno irreparabile è nei fatti: egli tuttora è un cittadino innocente. Ecco perché reclamare equilibrio nell’informazione in un momento così delicato è doveroso.
Garlasco, vacilla l’alibi di Sempio: analizzati sms della madre
Torna alle notizie in home