Esteri

Gaza: strade parallele per la pace e per la guerra

Trump spinge per il cessate il fuoco, Hamas riflette, mentre i falchi israeliani vogliono la guerra

di Ernesto Ferrante -


A pochi giorni dal suo faccia a faccia con il premier israeliano Benjamin Netanyahu a Washington, il presidente statunitense Donald Trump, ha annunciato attraverso il suo social media Truth che Israele ha accettato le condizioni per un cessate il fuoco a Gaza. A sbloccare la situazione sono stati i colloqui nella capitale americana tra il ministro israeliano per gli affari strategici Ron Fermer e alti funzionari dell’amministrazione Usa tra cui il vicepresidente Vance, il segretario di Stato Rubio e l’inviato speciale Witkoff.

Ospedale Nasser al collasso

Nel frattempo, i raid aerei israeliani proseguono. L’ospedale Nasser di Khan Yunis, nel sud di Gaza, ha fatto sapere di non poter più seppellire i defunti nella sua area poiché lo spazio a disposizione è esaurito. “I cimiteri non sono più in grado di contenere il numero di morti”, ha spiegato il Nasser in un comunicato.

La risposta di Hamas alla proposta di Trump

Hamas ha dichiarato in una nota che “i mediatori stanno compiendo intensi sforzi per colmare il divario tra le parti, raggiungere un accordo quadro e avviare un serio ciclo di negoziati”. Il movimento di resistenza palestinese ha assicurato di “agire con un forte senso di responsabilità e di condurre consultazioni con le fazioni palestinesi per discutere le proposte ricevute al fine di raggiungere un accordo che garantisca la fine dell’aggressione”.

In precedenza, fonti del gruppo, hanno riferito che la sua leadership “sta esaminando” la nuova proposta per una tregua di 60 giorni nell’enclave palestinese. Il documento è stato inoltrato alle altre fazioni palestinesi al fine di raggiungere un consenso nazionale. Le fonti, interpellate dal sito online del quotidiano panarabo Asharq Al-Awsat, lamentano tuttavia la mancanza nella nuova proposta di un chiaro riferimento all’impegno israeliano di ritirarsi dalla Striscia, alla ricostruzione delle infrastrutture e al rispetto della clausola umanitaria.

Cosa manca per raggiungere l’intesa

“Siamo molto vicini” a un cessate il fuoco tra Israele e Hamas. Lo ha detto Sima Shine, senior advisor presso il think tank israeliano “Institute of National Security Studies” dopo una lunga carriera nella comunità di intelligence dello Stato ebraico, durante il webinar “Crisi mediorientale: implicazioni e scenari geopolitici, di sicurezza ed energetici del confronto Israele-Iran”, organizzato dalla Fondazione Eni Enrico Mattei.

Per Shine, la prossima visita di Netanyahu negli Usa, in agenda per lunedì prossimo, è un segnale positivo in tal senso. Anche se i due partiti di destra radicale che sostengono il suo governo dovessero abbandonarlo, ha osservato l’esperta, il leader israeliano “avrebbe comunque il sostegno dell’opposizione per trovare un accordo, e penso che succederà”.

Gli estremisti non vogliono il cessate il fuoco a Gaza

Il ministro di ultradestra israeliano Itamar Ben-Gvir avrebbe contattato il collega Bezalel Smotrich per fare fronte comune e affossare l’intesa. Un informatore vicino a Smotrich ha rivelato che Ben-Gvir “ha parlato con i media di un incontro non ancora fissato. La vittoria a Gaza è troppo importante e la vita degli ostaggi troppo preziosa per trasformarla in un gioco mediatico”.

La pericolosa uscita del ministro Levin

A rendere precari i fragili equilibri raggiunti di volta in volta, sono i “falchi” annidati nell’esecutivo di Tel Aviv, anche nel partito principale. “È arrivato il momento di applicare la sovranità” israeliana sulla Cisgiordania, ha affermato il ministro della Giustizia ed esponente del Likud, Yariv Levin, durante una riunione con il capo dei coloni, Yossi Dagan.

“Penso che questo periodo, al di là delle questioni attuali, sia un’opportunità storica che non dobbiamo mancare”, ha aggiunto Levin, riferendosi all’annessione del territorio palestinese. “La mia posizione su questo tema è ferma, è chiara”, ha rimarcato il ministro, sottolineando che deve essere messa “in cima alla lista delle priorità”.

Posizione ancora una volta non equidistante quella del blocco Occidentale. “Ribadiamo il nostro impegno per la pace e la stabilità in Medio Oriente. In questo contesto, riaffermiamo che Israele ha il diritto di difendersi. Ribadiamo il nostro sostegno alla sicurezza di Israele”, si legge in una dichiarazione congiunta i ministri degli Esteri del G7 e dell’Alto Rappresentante per la Politica estera dell’Ue.

Le responsabilità economiche nello sterminio a Gaza

Un rapporto delle Nazioni Unite menziona oltre 60 aziende, tra cui Lockheed Martin, Leonardo, Caterpillar Inc, HD Hyundai, coinvolte nel sostegno agli insediamenti israeliani e alle azioni militari a Gaza, definendolo una “campagna genocida”. L’avvocatessa italiana per i diritti umani Francesca Albanese, Relatrice Speciale delle Nazioni Unite per i Territori Palestinesi Occupati, ha redatto il report basandosi su oltre 200 documenti presentati da Stati, difensori dei diritti umani, aziende e accademici. Pubblicato nella tarda serata di lunedì, l’articolato lavoro chiede alle aziende di cessare i rapporti con Israele e garantire la responsabilità legale dei dirigenti implicati nelle violazioni del diritto internazionale. I giganti della tecnologia Alphabet, Amazon, Microsoft e IBM sono indicati come “centrali per l’apparato di sorveglianza israeliano e per la continua distruzione di Gaza”.

“Mentre la vita a Gaza viene annientata e la Cisgiordania è sotto attacco crescente, questo rapporto mostra perché il genocidio israeliano continua: perché è redditizio per molti”, ha scritto Albanese nelle 27 pagine, accusando le aziende di essere “finanziariamente vincolate all’apartheid e al militarismo di Israele”.

La missione israeliana a Ginevra ha risposto che il rapporto è “legalmente infondato, diffamatorio e un flagrante abuso d’ufficio”. I colleghi statunitensi presso le Nazioni Unite a New York, hanno invitato il Segretario delle Nazioni Unite Antonio Guterres a condannare Albanese e a chiederne la rimozione.

Pur non avendo un valore giuridico vincolante, “From Economy of Occupation to Economy of Genocide”, rappresenta un forte monito a perseguire la responsabilità aziendale nei conflitti armati. “Il genocidio non è solo un crimine, è anche un affare”, ha concluso Albanese, “e va combattuto su entrambi i fronti”.


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