Attualità

Giustizia, la sfida dei tempi

di Redazione -


di Elisabetta Aldovrandi

Ventitré anni. Tanto, e anche di più, può durare un processo civile in Italia. Tra primo grado, appello e ricorso in Corte di Cassazione, tra generazioni di familiari che si tramandano i contenziosi come si trasmettono soldi e case, avvocati costretti a rinunciare al mandato per sopravvenuta morte e turn over di magistrati senza soluzione di continuità, il riconoscimento di quel diritto presuntivamente violato e di cui si chiedeva tutela resta lì. Granitico, e immobile. Come immobile, o quasi, è il funzionamento della nostra giustizia.
La lentezza nel funzionamento dei nostri tribunali è uno dei principali problemi strutturali dell’Italia. L’inefficienza del nostro sistema giudiziario non soltanto disincentiva gli investimenti, ma aumenta il costo del credito e riduce il tasso di occupazione e di partecipazione al mercato del lavoro. Il rapporto 2020 “Doing Business” della Banca Mondiale mette l’Italia al 122esimo posto su 190 per la categoria “tempo e costi delle controversie”. Siamo tra i Paesi in cui le controversie giudiziali durano più a lungo e costano più soldi. Lo stesso Guardasigilli prof. Carlo Nordio, nelle sue prime dichiarazioni dopo la nomina da parte del Capo dello Stato, ha confermato che un deterrente importante a fare impresa in Italia è proprio l’eccessiva durata dei processi. D’altronde, è impossibile dargli torto: se per ottenere una sentenza che accerti un inadempimento contrattuale o un provvedimento che stabilisca il diritto di credito verso un debitore insolvente bisogna attendere anni, con il rischio che chi è tenuto a risarcire o pagare nel frattempo si renda irreperibile e faccia sparire ogni garanzia di adempimento, è logico che, seppure in presenza di altre condizioni favorevoli, chi opera nel campo dell’imprenditoria soppesi i costi e i benefici prima di effettuare un qualsiasi investimento in Italia. In effetti, i dati confermano la riflessione del Ministro della Giustizia, laddove si considera che, in base ai dati CEPEJ (Commissione europea per l’efficacia della giustizia) del Consiglio d’Europa, nel 2018, la giustizia italiana è stata la più lenta d’Europa. Il lasso di tempo per i processi che giungono al terzo grado di giudizio, ossia in Corte di Cassazione, pur essendosi ridotto, è di 2.656 giorni (527 giorni per il primo grado, 863 giorni per il secondo grado e 1.266 giorni per il terzo) per il biennio 17/18 (ultimi dati disponibili), che corrispondono a 7 anni e 3 mesi. Anche per i processi penali non va meglio: il giudizio penale di primo grado ha una durata media di tre volte superiore a quella europea, quello di appello addirittura otto volte di più. In particolare, i tempi maggiori si hanno per giungere a sentenza in Corte d’Appello e di Cassazione, emesse quasi sempre oltre il parametro “Pinto”, ossia quel limite indicato come ragionevole durata del processo, oltre il quale le parti hanno diritto a chiedere un indennizzo.
In Europa, ci sono Stati che vantano situazioni assai migliori. Nel 2018, i processi giunti al terzo grado di giudizio sono durati circa la metà in Francia (1223 giorni) e in Spagna (1240 giorni), mentre soltanto un terzo (840 giorni) in Germania. Questo fa comprendere alcuni dei motivi per cui, in Europa, vi siano diverse velocità di sviluppo economico. Non si tratta, soltanto, di fattori strettamente connessi all’economia, ma anche di elementi comunque coinvolti nel sistema economico.
Per questo, l’Italia ha assunto, nel 2021, un impegno nei confronti della Commissione Europea: ridurre entro il 2026 del 40% la durata dei processi civili, e del 25% quelli del processo penale. Sfida importante, quasi epocale. Che, se vinta, potrà portare beneficio ai cittadini che chiedono tutela dei loro diritti.


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