Cultura & Spettacolo

Gli Stati Uniti e la paura di un nuovo Vietnam

di Redazione -


Tutto torna: un impero che collassa, entità territoriali ai suoi confini che diventano Stati sovrani, guerre civili tra fazioni politiche e minoranze linguistiche, potenze straniere che sostengono le une contro le altre per il controllo dello scacchiere. 

E non c’è peggior incubo, per la politica americana, di rivivere la guerra in Vietnam: per quasi vent’anni, subentrando ai francesi dopo il crollo dell’impero giapponese in Indocina il coinvolgimento statunitense fu diretto, politico e militare, per difendere il Sud dalle aggressioni portate dal regime comunista del Nord, sostenuto sia militarmente che politicamente da Russia e Cina. 

La penisola indocinese, divisa a tavolino nel ’54 in quattro entità, tra Cambogia, Laos ed i due Vietnam, era strategica per contrastare la Cina comunista di Mao Tse-tung, che aveva sconfitto l’esercito di Chang Kaï-chek, l’alleato degli americani nella guerra al Giappone che era dovuto riparare a Formosa, l’odierna Taiwan. Difendere Saigon, in un conflitto di logoramento sul terreno, in una guerra rivoluzionaria invincibile nonostante i continui bombardamenti aerei sul Nord, dissanguò Washington. La sconfitta fu cocente: la superpotenza militare ed economica che aveva supportato gli Alleati vincendo la Seconda guerra mondiale era stata sconfitta sul campo in un modestissimo conflitto locale. Non solo si era dovuta ritirare dal Vietnam, ma era dovuta scendere addirittura a patti con il nemico di sempre, Mao, pur di spezzare il fronte comunista che lo legava a Mosca: occorsero trent’anni, dal 1971 al 2001, per portare la Cina nel Wto e farla diventare la fabbrica del mondo che ora compete con gli Usa sul piano globale.   

Il collasso dell’URSS, nel ’91, con l’indipendenza acquisita sul versante europeo da Bielorussia ed Ucraina, ha ripetuto il medesimo paradigma: da allora, attrarle nell’area occidentale è  per Washington un obiettivo indispensabile per continuare a contrastare la Russia: che sia comunista o meno non importa, non essendo né contendibile sul piano economico e finanziario, né condizionabile su quello politico.

La contesa interna all’Ucraina prende spunto dalla insofferenza verso Kiev delle regioni orientali russofone e della Crimea che fa parte della Russia da tempo immemorabile. Per avere una profondità di difesa strategica ai confini, Mosca pretende che l’intera Ucraina divenga neutrale e comunque smilitarizzata dal punto di vista nucleare: ha già riacquisito la Crimea ed ora vuole rendere autonome le due Repubbliche orientali. Al contrario, Washington vuole che l’intera Ucraina acceda alla propria area di influenza per essere parte della nuova Cortina di ferro che scende dal Mar Baltico al Mar Nero, coinvolgendo Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia ed appunto l’Ucraina.

In Ucraina, come già accadde per il Vietnam, il confronto è innanzitutto ideologico, contro i regimi autocratici ed illiberali: il mondo libero e democratico si unisce sotto la bandiera che stavolta è saldamente impugnata dalla Nato, così come per combattere in Vietnam  gli Usa convolsero la Seato, la Southeast Asia Treaty Organization, istituita non casualmente nel ’54.

Le sanzioni imposte alla Russia per punirla della invasione della Ucraina e per isolarla economicamente e finanziariamente ci riportano indietro al confinamento che esisteva ai tempi della guerra del Vietnam, e che era stato reso più rigoroso dopo la crisi di Cuba del ’63. All’inizio del coinvolgimento americano nel conflitto, la distanza che separava gli Usa dalla Cina di Mao era siderale: fino al 1979 non era neppure riconosciuta.

Se, nei confronti della Russia, l’Ucraina ha oggi il medesimo rilievo strategico che aveva il Vietnam rispetto alla Cina comunista, anche stavolta le relazioni tra Mosca e Pechino si sono rinsaldate ed è sfumato l’ormai storico intento americano di dividerle isolando la Russia da una parte ed attraendo a sé la Cina dall’altra.

Ed è immenso, come allora, il capitale politico che  viene investito da Washington, dal G7, dalla Nato e dalla Unione europea nel sostegno a Kiev, per fornirle ogni  aiuto militare ed economico affinché riconquisti i territori orientali e magari riporti anche la Crimea sotto la propria sovranità: opponendosi alla invasione russa, esattamente come accadeva con i nord vietnamiti che invadevano il Vietnam del Sud e minacciavano persino la base navale americana di Da Nang. Ed è una guerra, ancora una volta non dichiarata, in cui il sostegno militare occidentale è al momento fatto di addestramento, armi, logistica, intelligence. 

Uno stallo del conflitto, una cessazione della avanzata russa dopo aver concluso la conquista del Donbass ed acquisito la continuità territoriale con la Crimea, un continuo cannoneggiamento a distanza sarebbe politicamente insostenibile per Kiev: la guerra, combattuta per la riconquista dei territori orientali e meridionali, persa. 

Per l’Occidente, la sconfitta strategica sta piuttosto nel rinsaldamento dei rapporti tra Russia e Cina e nella estensione degli accordi regionali alternativi a quelli da sempre guidati dall’Occidente, che ora escludono gli Stati del G7 e quelli europei: non avrebbe perso solo la guerra in Ucraina ma la presa sull’economia globale con cui si è arricchito. La crisi del dollaro, nel ’71, dipese dallo stallo della guerra in Vietnam, costosa ed inutile: gli Usa dovettero dichiarare il recesso unilaterale dagli Accordi monetari di Bretton Woods, rifiutandosi di continuare a convertire in oro il disavanzo commerciale. La corsa alla de-dollarizzazione ora sta accelerando, e questo è il più grande pericolo.  

Vladimir Zelensky potrebbe fare la fine di Nguyen Van Thieu, il premier sud vietnamita prima sostenuto e poi abbandonato al suo destino da Richard Nixon, il Presidente repubblicano che decise di tirarsi fuori dal conflitto e che non casualmente ebbe tanti guai. In Occidente si fanno, di questi giochi.       


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