Cultura & Spettacolo

I figli sono di chi se li cresce

di Adolfo Spezzaferro -


 Un film puro, senza fronzoli, essenziale – l’Arte è togliere – pieno di silenzi che danno voce ai sentimenti, al sentire, alla bellezza. The Quiet girl di Colm Bairéad è un film talmente potente, nella sua messa in scena minimale, talmente ben fatto, nella sua (apparente) semplicità, che è già un classico. E’ la prima pellicola recitata in gaelico irlandese a concorrere nella categoria Miglior film in lingua straniera agli Oscar 2023. Un gioiello di narrativa lineare, impreziosito da una fotografia notevole e da alcune inquadrature molto originali, introspettive, a sottolineare lo stato d’animo della protagonista. Il tutto su misura di una bambina, e di come vede il mondo e gli adulti.
Irlanda, primi anni Ottanta. Cáit (la prodigiosa e bellissima esordiente Catherine Clinch) si nasconde in mezzo all’erba alta. La madre la chiama ma lei non risponde. Una volta a casa il letto diventa il nuovo nascondiglio, per sfuggire ai rimproveri della madre. L’unica presenza di Cáit nella casa è il letto bagnato ogni mattina, segno inequivocabile del suo disagio, così come della ricerca di attenzioni. Invece Cáit vive in una famiglia dove nessuno se la fila, dalla madre totalmente anaffettiva al padre, ubriacone con il vizio del gioco, capace di caricarsi in macchina l’amante con la figlia presente. Le sue sorelle la trattano male, la deridono. Lo stesso succede a scuola, dove lei è la bambina “diversa”. Perché Cáit è sensibile, profonda, introspettiva. Per questo si chiude in quella quiete, in quel silenzio del titolo del film. Anche non parlare è un modo per nascondersi.
Finché non arriva la svolta: la madre incinta per l’ennesima volta spedisce Cáit da dei lontani parenti per le vacanze estive. Si tratta di una cugina della madre e di suo marito che vivono in un’altra contea e mandano avanti una fattoria. Sono i Kinsella, una coppia senza figli con una casa pulita e ordinata, piena di luce, dove si fa il bagno con l’acqua calda. Anche qui però la protagonista la prima notte fa la pipì a letto. Ma al contrario di sua madre, Eibhlín, una donna dolce e premurosa, che la ricopre di attenzioni, minimizza sull’accaduto e non la sgrida. E’ l’inizio di una nuova vita. Di un nuovo rapporto con gli adulti. Di una nuova concezione di famiglia. Piccoli gesti, poche ma essenziali parole fanno sbocciare i sentimenti di Cáit, che fiorisce in una nuova e completa bellezza. Non si tratta solo di ricevere vestiti nuovi o imparare tante cose, dai lavori domestici a quelli nella fattoria. Per la prima volta la piccola protagonista non si nasconde più, parla (in proporzione) molto di più, esprime a pieno i suoi sentimenti e viene ricambiata. Pian piano anche da Seán, il fattore, che inizialmente nemmeno le rivolge la parola (andando avanti nella storia si capirà perché). E invece poi la amerà, istruirà, proteggerà e come se fosse il padre che non ha mai avuto.
Bairéad grazie a una delicatezza rara, una leggerezza dello spirito con cui affronta temi e nodi tutt’altro che leggeri, va dritto al cuore degli spettatori – in sala non sono mancate le lacrime – raccontando una storia di sentimenti, prima negati e poi finalmente corrisposti. Una storia sull’infanzia e sulla crescita, in cui passo dopo passo viene costruito il rapporto genitore-figlio. Perché i figli, si sa, sono di chi li cresce.
La lezione del film, che narra dei problemi di una società ormai lontana, quella dell’Irlanda rurale degli anni Ottanta, è invece attualissima: il valore del silenzio. Il padre adottivo a tempo determinato, chiamiamolo così, apprezza moltissimo che la bambina parli poco. Perché ci sono cose che vengono dette e che non andrebbero dette, di cui si pagherà il prezzo per tutta la vita. Meglio poche parole: quelle giuste.
Il formato 4:3 – lo stesso del recente Le otto montagne – in cui è girato amplifica le inquadrature, ingrandisce i primi piani, per farci essere ancora più nella storia. Ci fa guardare le cose con gli occhi azzurrissimi di Cáit, dapprima pieni di sorpresa, quasi increduli, poi pieni di serenità ed empatia. Ogni sguardo, ogni dialogo, ogni gesto, ogni forma di attenzione che le vengono rivolti veicolano un qualcosa di unico e insostituibile, mai ricevuto prima. Il regista irlandese è talmente bravo a dare il tempo, che alla fine nonostante il ritmo lento, introspettivo, contemplativo – come nelle sequenze in ralenti delle corse felici di Cáit, fondamentali ai fini della storia -, il film sembra durare meno del minutaggio effettivo. Tanto la storia ci coinvolge e ci commuove. Fino all’epilogo, dove la forza dell’amore genitore-figlio viene sprigionata in tutta la sua invincibile purezza.

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