Attualità

I killer del lavoro

di Tommaso Cerno -


di TOMMASO CERNO

Perché noi ci stiamo concentrando sul salario minimo, ormai una misura di elemosina necessaria in un Paese dove non si campa più con i salari medi, un Paese dove il sindacato che riempie le piazze per protestare ha firmato contratti sotto i 4 euro, un Paese dove la sinistra è costretta a rinnegare tutta la sua storia e sposare questo provvedimento perché la situazione è talmente grave che non c’è più nemmeno il tempo per riflettere su come possa progredire il valore del lavoro, dove si va avanti mettendo pezze, con quella fretta necessaria dalla grave situazione in cui versano i cittadini più poveri, che di sicuro ci farà fare degli errori, sottovalutare delle conseguenze, aprire un altro fianco alle multinazionali che, sono pronto a scommetterci, stanno già studiando come fare a pareggiare quegli aumenti nella prospettiva dei prossimi anni. Il lavoro in Italia merita il centro della scena.

E’ un disastro idrogeologico che colpisce le fondamenta dell’uomo e delle sue formazioni sociali primarie a partire dalla famiglia, dai figli e dalle loro prospettive, incide come un terremoto sulla possibilità del Paese di evolvere secondo un progetto compiuto. In più la sua trasformazione dal luogo sociale dove certo si conquista quel reddito con cui si è poi in grado di vivere e di far vivere altri ma si trova anche la dimensione sociale e pubblica della propria esistenza, in un’idea di avanzamento nel tempo del proprio ruolo nella comunità, in una mansione retribuita che dà l’impressione, sempre più reale, che l’unico profitto che si genera è sudato da noi ma incassato da chi sta sopra di noi, scardina il principio per cui il lavoro era anche un agente sociale, che rendeva più controllabile il Paese, più prevedibili le reazioni delle persone. E invece ci rendiamo conto di essere usciti di strada.

E mentre la pioggia e la grandine, così come l’alluvione in Emilia, già scomparsa dalle prime pagine dei giornali e dei telegiornali, così come Ischia prima e indietro nel tempo verso vent’anni di promesse mancate ci portano a credere nella necessità di un intervento globale e profondo per salvare quell’Italia che sembra andare in pezzi intorno a noi, il fatto che il deterioramento della nostra condizione costituente, quel lavoro sancito nel primo articolo come base culturale prima ancora che economica per uscire dallo schema mentale dell’Italia fascista sia lento, inesorabile ma invisibile ci fa pensare che basti correggere una cifra dentro un pezzo di carta per tornare in carreggiata.

Una balla gigantesca di cui pagheremo presto le conseguenze. Per non parlare del rischio di un effetto Fornero che consisterà nel fatto che mentre qualcuno guadagnerà un po’ di più di prima, sempre meno di quanto gli servirà, correggendo contratti vergognosi che sono stati comunque sottoscritti dal sindacato che oggi si lamenta, apriremo il varco all’idea che i gruppi più grandi cominciano a sostituire addetti a reddito medio con salari minimi, creando degli esodati della classe media che si troveranno improvvisamente a non capire da che parte progredirà la propria esistenza.

Un fenomeno che abbiamo già visto avvenire in corrispondenza dei grandi piani di prepensionamento, strapagati con i soldi pubblici dallo Stato in diverse categorie e che hanno ridotto gli organici e gli stipendi di chi subentrava modificando nella percezione del lavoratore, ma anche della comunità esterna, il ruolo sociale di quella mansione dopo decenni in cui ne aveva costruito uno. Scusate se queste riflessioni sono complicate rispetto alla faciloneria di chi dice “meglio prendere 2 euro in più oggi che la gallina domani”. Ma ne ho viste troppe in questo Paese per non lasciarlo almeno scritto.


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