Cronaca

I liberali e il no alla sinistra

di Redazione -


di Michele Gelardi

Se la Thatcher, leader dei conservatori inglesi, si contrapponeva ai laburisti; se Reagan, leader dei repubblicani americani, si contrapponeva ai “democratici”; se in ogni angolo d’Europa i liberali sono avversari politici dei socialisti; una ragione deve pur esserci. E se ovunque gli uni si chiamano “destra” e gli altri “sinistra”, la radice del bipolarismo, programmatico e semantico, non può non avere solide basi storiche.

Solo in Italia la confusione delle lingue rende possibile la commistione lib-lab, in virtù della quale tutti fanno a gara a definirsi “liberali”, a prescindere dal contenuto di libertà dei programmi politici. Vorrei suggerire un criterio minimale per riconoscere il contenuto liberale, al di sopra e al di fuori del nominalismo di facciata. Prendiamo in considerazione la linea discriminatoria fondamentale: dirigismo/spontaneismo.

I socialisti non possono non essere dirigisti, per la necessità di attuare politiche di redistribuzione, posto che la distribuzione di mercato non pare loro soddisfacente; il che impone loro di essere statalisti, dovendo demandare all’autorità politica e agli apparati di Stato l’onere di togliere agli uni per dare agli altri. I liberali apprezzano gli ordini spontanei, fondati sull’innata socialità dell’uomo e sullo scambio volontario; diffidano al contempo della potestà coercitiva dello Stato e intendono ridurne al minimo gli interventi.

Il primo e fondamentale ordine spontaneo consiste nel linguaggio umano. La semantica linguistica non è frutto della pianificazione politica; non è programmata da alcuna autorità; si evolve con l’apporto di tutti e il comando di nessuno.

Eppure in quest’ordine spontaneo risiedono le basi del nostro sapere. Se il consesso umano progredisce in scienza e tecnologia, non lo si deve certo alla benevolenza dello Stato, i cui apparati burocratici possono tutt’al più intralciarne le vie.

In ultima analisi, la stessa civiltà umana consiste in un ordine spontaneo che non obbedisce alle deliberazioni autoritarie, dalle quali tuttavia può risultarne distorto.

Ebbene se la lingua è la più limpida espressione della libertà; il primo e fondamentale ordine spontaneo, sul quale si edifica il castello della convivenza umana; chiediamoci se colui che intende imporre vocaboli “politicamente corretti” possa definirsi liberale. La violenza della politica ha inizio nelle piccole cose; ma se la tolleriamo nelle piccole, non potremo certamente fermarla o arginarla nelle grandi.

Se taluno vuole imporci la parola “direttora”, al posto della comune direttrice, o “presidenta” etc.; e ci vuole impedire di usare il termine “negro” per nulla dispregiativo (semmai è il “nigger” americano a suonare dispregiativo); e vuole chiamare “mammo” il padre; e vuole chiamare genitore 1 e genitore 2 il padre e la madre; può costui definirsi liberale?

E questo sedicente liberale, che vuole violentare perfino la nostra lingua, si porrà forse qualche scrupolo nel “dirigere”, “indirizzare”, “pianificare”, “omologare” le nostre relazioni economiche e sociali, in nome del “supremo bene comune”?

Ovviamente, i dirigisti vogliono dirigere la società per tutelare i consociati, con tutte le forme possibili di “prevenzione”; e ovviamente, nella libera dinamica della democrazia, hanno tutto il diritto di patrocinare il loro dirigismo; non hanno, tuttavia, il diritto di chiamarsi liberali.


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