I multischiavi del lavoro
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di GIOVANNI VASSO
Povero lavoro. E poverissimi lavoratori. Lo ha detto anche il presidente della Repubblica Sergio Mattarella che, da Reggio Emilia, ha lanciato un serissimo monito sul lavoro e sulla dignità.
Ma c’è un giudice del lavoro. Non a Berlino, per fortuna, ma a Milano. Che ha sanzionato, come incostituzionale, la paga oraria addirittura inferiore ai quattro euro all’ora che era stata riconosciuta a una donna, padovana, assunta come guardiana di un magazzino per la grande distribuzione. Lavorava a fronte di un salario da 3,96 euro l’ora. In un mese, anche mettendocela tutta, non riusciva a superare la soglia della povertà individuata dall’Istat nella cifra di 840 euro. Guadagnava, infatti, circa 640 euro ogni mese. E la beffa era che quella somma era perfettamente in linea con un regolare contratto nazionale, controfirmato da sindacati importanti come Cgil e Cisl. Il giudice ha disposto l’applicazione di un altro contratto, legato a servizi di portierato, e ha ingiunto all’impresa di rifondere alla sua dipendente 372 euro, lordi, per ogni mese di lavoro. Non è mica la prima volta che un giudice, in Italia, stanga i datori di lavoro troppo avidi che approfittano di contratti poco generosi nei confronti dei dipendenti. Era già successo nel 2016, ad agosto, quando un vigilante piemontese, finito a lavorare per qualcosa come 4,40 euro all’ora, chiese e ottenne dal tribunale un “aumento” rispetto a un contratto nazionale regolarmente sottoscritto dai sindacati.
La beffa, in questi casi, è che spesso e volentieri si tratta di contratti applicati da società che nascono cooperative, quindi con una precisa ragione sociale (che, in teoria, sarebbe quella di fornire condizioni migliori di lavoro ai suoi soci) e che finiscono poi per diventare società di capitali, talora addirittura Spa. La beffa nella beffa è che queste aziende lavorano, spesso e volentieri, a strettissimo contatto con il pubblico. E limano, al massimo, sugli emolumenti e sui salari riconosciuti ai loro dipendenti per rientrare nella logica dei massimi ribassi delle gare d’appalto. Insomma, un cane che si morde la coda.
Accade, per esempio, anche nell’edilizia. I guardiani sono pagati, mediamente, tra i sette e gli otto euro l’ora, con una paga base conteggiata tra i 4,38 e i 4,93 euro l’ora. Nel campo sociosanitario le cose non vanno meglio. Per le badanti, per esempio, il salario orario minimo è tra i 4,83 euro e gli 8,57 euro.
Il contratto di lavoro Multiservizi, attualmente, prevede (dopo lo scatto del 2022) una paga oraria minima di circa 6,7 euro. Che aumenterà a sette euro a luglio di quest’anno. Tra un anno saranno aggiunti altri quattro centesimi. Poco, pochissimo. Ma regolare, tutto a norma di legge. E di concertazione.
È evidente che in questa vicenda si inserisce il tema del salario minimo. Una paga fissa, sotto la quale non si può scendere, per attuare il dettato dell’articolo 36 della Costituzione. Quello che, al di là della retorica, stabilisce che la remunerazione deve garantire una vita dignitosa al lavoratore. Sarebbe la soluzione, secondo chi ne propugna l’inserimento nell’ordinamento giuslavoristico nazionale, ai problemi di lavoro povero, di contratti ingenerosi. Infatti, il tema è che l’Italia, a differenza della Germania dove vige questa norma, si è preferito (da sempre) puntare forte sulla contrattazione collettiva. Solo che, si capisce, qualcosa è andato storto. Al 30 giugno dello scorso anno erano stati depositati al Cnel qualcosa come 1.010 contratti collettivi nazionali di lavoro. Una marea di scartoffie, sottoscritti (talora) da un pugno di imprese e da decine e decine di sigle concertative di ogni tipo, di ogni nome, di ogni dimensione.
Dalla Triplice fino ai sindacati di dimensioni molto minori. A essere cattivi, si direbbe quasi più fogli di carta che lavoratori effettivamente assunti. Si questi, ben 940 afferiscono al settore privato. E, tra loro, ben 563 (poco meno del 60%) già scaduti da tempo. Intanto, nelle more (come si dice in burocratese) di prosegue a dare valenza a quelli scaduti. E perciò l’Italia si presenta, in Europa, come il Paese in cui le retribuzioni sono le più depresse in tutto il Vecchio Continente, rispetto agli aumenti dei prezzi e del costo della vita. Non dall’inizio della crisi energetica, nemmeno dalla pandemia in poi: ma da qualche decennio. Forse per la Bce, che propugna la necessità di fermare gli aumenti degli stipendi per frenare l’inflazione, il nostro Paese potrebbe anche rappresentare un modello. Ma la realtà è che, ovunque, i lavoratori stanno meglio che in Italia. Almeno in termini di trend.
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