Attualità

Chips, assemblare o produrre? Entrambi, possibilmente

di Marco Travaglini -


Verrebbe da scrivere chip senza h per restare in tema di una politica industriale europea alla quale piacerebbe “restare in gioco senza puntare”, come nel poker.
Lo scorso anno, l’UE, spaventata dallo stop di produzione post Covid da parte di Texas, Giappone e Taiwan degli anni passati, ha varato una serie di misure e messo in campo diversi miliardi (sempre pochi per arginare la concorrenza dei colossi asiatici e americani) al fine di rendersi produttivamente indipendente: tra queste il Chips Act, per raddoppiare la produzione di microchip e dare così maggior voce a tutto il manifatturiero legato al loro utilizzo e indotto.
Un’Europa in affanno, nel costante tentativo di mettere il tappo alle sue macro dipendenze dai continenti “più giovani” (in termini industriali e sociali), da quella energetica della Russia e, ancor più, dalle Big Data Company d’oltreoceano; per non parlare della forte carenza di Unicorni da startup.
E allora giù Aiuti di Stato “allargati” in fase di emergenza – spesso a valle e meno a monte (in una vision che, nei piani dei settennati UE proposti, sembra molto frammentata) – con iniezioni di liquidità per supportare politiche che appaiono più palliative e propagandistiche del momento, che veramente strutturali.
Anche l’Italia ha puntato sul proprio settore manifatturiero – secondo in Europa solo a quello tedesco che, è bene ricordarlo, dipende anche dal nostro per i beni intermedi, e viceversa – con misure fortemente focalizzate sul produrre: “l’Europa dovrà tornare ad essere la fabbrica del mondo” (cit. del Ministro Urso in una delle assemblee di Confindustria).
Ma siamo certi che in un mondo fatto di immaterialità, software e servizi a portata di mano, una politica di prodotto e di produzione capace di mantenere e valorizzare il Made in Italy e le nostre capacità inventive – ma bisognosa di plasmare su se stessa anche una capacità di “assemblaggio”, non solo hardware, ma soprattutto di mix di tecnologie ormai quasi commodity (come l’AI) – sia sufficiente?
È importante valutare tutto ciò anche alla luce del crescente numero di fallimenti – in aumento nei settori del commercio e dei servizi, rispetto a quello produttivo (fonte CRIBIS) – e dei dati sulla (im)produttività (molto più bassa nel settore dei servizi), non dimenticando la dimensione aziendale (micro) e la frammentazione da gig economy, sempre più diffuse in tali categorie di imprese.
Dunque, il mondo dei servizi dovrebbe assemblare tecnologie esistenti, da un lato, ed essere ben cablato con quello industriale, dall’altro, specie in un Paese dove a fare servizi (dalla ristorazione a quelli alle imprese) si improvvisano in molti, rendendo il lavoro ancora più povero e senza valore aggiunto.
Per non parlare, infine, del mondo delle professioni (servizi anch’esse), che in Italia sembrano molte, ma che sono la metà (in termini di PIL) di quelle tedesche; a riprova, probabilmente, di come industria e servizi crescano vicendevolmente.


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