Cronaca

Il boss in libertà

di Rita Cavallaro -


Ventisei anni di carcere, tra 41bis, qualche permesso premio e gli arresti domiciliari. Ora il pentito di mafia Gaspare Spatuzza, la gola profonda che svelò il depistaggio di via D’Amelio e fece condannare Matteo Messina Denaro per le stragi del ’92, è tornato in libertà. Il mafioso non ha del tutto chiuso conti con la giustizia italiana: la sua pena non è stata ancora estinta, ma da due settimane i giudici gli hanno concesso la libertà condizionale per i prossimi cinque anni, durante i quali Spatuzza dovrà rispettare una serie di prescrizioni, come non frequentare pregiudicati né lasciare il territorio di residenza senza le dovute autorizzazioni, pena la revoca del beneficio e la conseguente carcerazione dell’ex detenuto. Un detenuto che, seppur ritenuto “modello” negli ultimi anni, ha un profilo criminale di primo piano e le mani macchiate del sangue di vittime innocenti.

 

CAPO CLAN

 

Spatuzza detto “U tignusu”, soprannome che significa “il pelato”, ha iniziato la sua ascesa in Cosa nostra come uomo di fiducia dei fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, i boss del clan palermitano di Brancaccio catturati da latitanti il 27 gennaio 1994 mentre cenavano in un ristorante di Milano. Fu allora che Spatuzza ereditò il comando della cosca, con la benedizione dei capi dell’organizzazione mafiosa, tra cui Messina Denaro. D’altronde l’affiliato aveva dimostrato la sua caratura: tra il ’92 e il ’93 si era infatti distinto nella Famiglia per la sua indole spietata e per i terribili fatti di sangue che sconvolsero l’Italia. Fu lui a piazzare le bombe di Roma, Firenze e Milano che provocarono dieci morti e oltre cinquanta feriti. Il sicario della mafia si rese complice anche del delitto di don Pino Puglisi, il parroco di San Gaetano a Brancaccio ammazzato con un colpo di pistola alla nuca il 15 settembre 1993, nel giorno del suo cinquantaseiesimo compleanno. A sparare fu Salvatore Grigoli, ma Spatuzza accompagnò con la moto l’assassino sul luogo del delitto, quel portone di casa del sacerdote, dal quale i due si dileguarono poi a tutto gas. Ma il punto più basso della malvagità, Spatuzza lo toccò con il rapimento del piccolo Giuseppe Di Matteo, il dodicenne figlio del collaboratore di giustizia Santino, reato per cui U tignusu fu condannato a 12 anni di galera. Il bambino venne fatto prigioniero il 23 marzo 1993 su ordine del boss Matteo Messina Denaro e di Giovanni Brusca, il mafioso che il 23 maggio 1992 premette il pulsante e fece saltare in aria con 400 chili di tritolo il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli uomini della scorta, sull’autostrada all’altezza di Capaci. L’obiettivo del rapimento del piccolo Giuseppe era quello di persuadere il genitore a non rivelare gli affari di Cosa Nostra ai magistrati. Ma dopo 799 giorni di prigionia, i capi decisero che il bambino doveva morire. Fu ammazzato da altri affiliati l’11 gennaio 1996, dopo che Brusca apprese dal telegiornale della sera di essere stato condannato all’ergastolo per l’assassinio di Ignazio Salvo. Il bambino venne allora strangolato e il suo corpo sciolto nell’acido. Per il delitto, il 16 gennaio 2012, arrivò un’altra condanna al fine pena mai sia per Brusca, che si trovava in cella dal 20 maggio 1996, che per Denaro, latitante e giudicato in contumacia. A inchiodarli furono proprio le dichiarazioni del pentito Spatuzza, catturato il 2 luglio 1997 con una trappola. A vendere alla polizia il super killer, che in quel momento progettava l’assassinio dell’allora procuratore capo di Palermo Gian Carlo Caselli ed era in fuga da tre anni nel tentativo di sottrarsi ai numerosi mandati di cattura per le stragi e per oltre quaranta omicidi, fu il suo gregario Giovanni Garofalo. Gli investigatori lo avevano beccato e il sodale decise immediatamente di diventare pentito. “Vabbè dotto’ collaboro, vi porto da Gaspare Spatuzza, il capo, abbiamo un appuntamento”, disse incredibilmente ai poliziotti. E li condusse nel parcheggio dell’ospedale Cervello, dove il mafioso aspettava il suo uomo. Quando il reggente di Brancaccio si accorse dell’imboscata era ormai troppo tardi: tentò di fuggire, ma gli uomini della Catturandi aprirono il fuoco, convinti che il boss fosse armato della sua solita mitraglietta Uzi, e lo ferirono leggermente a una mano. U tignusu finì così in galera, in esecuzione di una sfilza di mandati di cattura spiccati per le stragi di Roma, Firenze e Milano, per gli omicidi di Giuseppe e Salvatore Di Peri, di padre Pino Puglisi, di Gaetano Buscemi, di Giovanni Spataro, di Marcello Grado, di Domingo Buscetta, di Gianmatteo Sole e tanti altri ancora. Il capo di Brancaccio è stato infine condannato a diversi ergastoli. Dopo undici anni di 41bis e gli studi alla Facoltà di teologia, Spatuzza venne folgorato sulla via di Damasco. Addirittura dopo la condanna al fine pena mai per l’assassinio di don Puglisi, il prigioniero chiese di sua iniziativa all’amministrazione del carcere di poter andare in isolamento, al fine “di poter intraprendere un cammino di ricerca dell’uomo”, spiegò. E alla conversione religiosa seguì il pentimento, che arrivò nell’estate del 2008.

 

IL DEPISTAGGIO

 

Spatuzza fece il nome del super latitante Messina Denaro quale mandante delle stragi di Capaci e di via D’Amelio, per cui il capo dei capi è già stato condannato, in contumacia, all’ergastolo e, ora, è in corso il processo d’appello davanti alla Corte d’Assise di Caltanissetta, le cui udienze il padrino continua a disertare. Per l’attentato al giudice Paolo Borsellino del 19 luglio 1992, il pentito, inoltre, svelò il depistaggio operato con le false dichiarazioni del collaboratore di giustizia Vincenzo Scarantino, a causa delle quali erano state ingiustamente condannate sette persone, poi assolte nel processo di revisione. Spatuzza disse infatti di essere stato lui, e non Scarantino, a rubare, su mandato dei fratelli Graviano, la Fiat 126 esplosa con i 50 chili di tritolo che non lasciarono scampo a Borsellino. La Procura riaprì così le indagini sulla strage e affrontò il quarto processo, in cui venne avanzata per la prima volta l’ipotesi di “depistaggio di Stato” ad opera del gruppo investigativo che, a detta dei pentiti, li massacrò di botte per indurli a parlare e fare anche false rivelazioni. Nel 2010 i magistrati chiesero per lui il programma di protezione testimoni, che solo in un primo momento gli venne negato. Poi arrivarono i permessi premio e dal 2014 la detenzione domiciliare. Il cambiamento di Spatuzza è stato definito dallo stesso mafioso come “atti di riparazione e solidarietà sociale”. Sia nella collaborazione, che ha portato a inchiodare numerosi boss, che nella ricerca del perdono, con le lettere alle sue vittime o ai familiari delle persone innocenti che ha ucciso brutalmente. Molte delle quali credono che la trasfigurazione di Spatuzza sia reale e ben radicata in un cammino spirituale e in un “sicuro ravvedimento”, fino a poco tempo fa non del tutto giunto a compimento. La decisione sulla liberazione condizionale è arrivata dopo che la Cassazione, nell’aprile scorso, aveva annullato con rinvio l’ordinanza del Tribunale di Sorveglianza di Roma, che in precedenza aveva negato la misura alternativa alla custodia cautelare. Ora è arrivata la nuova pronuncia della stessa Sorveglianza, che si è espressa su parere favorevole delle procure antimafia interpellate.


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