Pallonomics

Il buono, il pallone e la cattiva: David e Victoria in “Beckham” su Netflix

di Giovanni Vasso -


Prima di Harry e Meghan, l’Inghilterra si era già divisa. Per un’altra coppia regale. Non c’entra il paludatissimo cerimoniale della monarchia ma un’altra istituzione inglese che, se possibile, è ancora più conservatrice: il calcio. David e Victoria, il signore e la signora Beckham. Il campione e la pop-star. A cui, adesso, Netflix ha dedicato una miniserie documentario in quattro puntate.

In realtà, la serie, intitolata Beckham, dovrebbe essere incentrata sull’ex campione del Manchester United. Ma parlare di lui e glissare sulla compagna, a differenza di come fa sulle amanti o presunte tali di Becks, non è possibile. Il risultato è quello che è: David ti conquista, Victoria riesce nell’impresa di risultare ancora più antipatica di quanto sia. Basta una scena: lei, la Posh Spice, sfodera una gran faccia tosta davanti alle telecamere affermando di provenire da una famiglia “operaia”, lui fa capolino dalla porta e le chiede di dire con quale macchina il papà l’accompagnasse a scuola. Ecco, perché il resto, se possibile, è anche peggio.

David racconta di quando arrivò a Madrid, alla corte del Real, alla fine degli anni ‘90. Chiunque abbia mai anche solo ascoltato, una volta nella vita, la sigla di 90esimo minuto (o, in Inghilterra, di Match of the Day) sa cos’è e che voglia dire, per ogni calciatore (tranne Cassano?) entrare a far parte della famiglia madridista. Victoria, fin dall’inizio, odia Madrid, detesta la Spagna e solo ricordare quell’esperienza le mette il nervoso. “Fui presa alla sprovvista, volevo cercare una scuola per i bambini”. Manco a Madrid, dicesi Madrid meravigliosa capitale dell’altrettanto meravigliosa e nobilissima Spagna, fossero i missionari comboniani a insegnare ai bambini, stipati al freddo e al gelo nelle tende allestite da qualche Ong. La signora spingerà il marito a concludere quell’esperienza e a firmare coi Los Angeles Galaxy. Che, detta oggi, è l’equivalente di Erling Haaland che se ne va all’Al-Ittihad in Arabia. Solo che l’America e Hollywood hanno tutt’altro appeal rispetto al deserto di Jeddah. Difatti, Victoria si farà afferrare per pazza quando il marito, per non perdere la maglia della nazionale inglese, se ne andrà a passare sei mesi al Milan. E non lo seguirà in Italia.

Ma alla fine aveva ragione lei. Certo, tanto avranno pesato le voci (solo tali?) di quella liason di David che stava mandando a scatafascio il loro matrimonio proprio a Madrid. Ma c’è altro. La simpatia non sarà il suo forte ma, facendo le debite proporzioni, Victoria ha avuto, nel business, la stessa visione ampia che il marito aveva sui campi di gioco. A Los Angeles, infatti, David Beckham consoliderà il suo patrimonio, sfruttando tutte le potenzialità che il mercato americano può offrire. Al punto che oggi può vantare un patrimonio da quasi mezzo miliardo di dollari e, soprattutto, un network di contatti ad altissimo livello che gli ha consentito di poter portare, alla sua franchigia in Mls, niente poco di meno che Leo Messi. Ah, perché lui possiede una squadra (l’Inter Miami, casacca disegnata dallo stesso David in uno stilosissimo rosanero, che vende a 125 dollari ciascuna) perché così funziona negli Stati Uniti. Michael Jordan, passando al basket, è stato un non indimenticabile presidente dei Charlotte Hornets e Larry Bird ha guidato, in panca prima e negli uffici dirigenziali poi. gli Indiana Pacers mentre Shaquille O’Neal sta facendo carte false per mettere su un suo roster a Las Vegas.

 Chissà cosa sarebbe accaduto se fosse rimasto in Inghilterra a fare la bandiera di un club, il Manchester United, che non lo voleva più: chissà se avesse continuato a giocare nel campionato (che non era ancora la Premier di oggi…) di una nazione che lo sottopose a un linciaggio mediatico impressionante, lungo due anni e quasi costatogli la depressione, a causa di una furbizia del Cholo Simeone a Francia ’98 e del tradimento del ct Glenn Hoddle, suo “mito d’infanzia” che lo accusò di pensare più a vestirsi bene che a giocare al calcio per il suo Paese. Ah, già: magari accompagnerebbe torme di turisti da chissà dove a farsi il giretto all’Old Trafford, una comparsata ogni tanto, un’intervista all’anno a Walter Veltroni, oppure avrebbe aperto una web-tv con Paul Scholes, Gary Neville e Robbie Fowler salvo poi litigarci o, ancora, avrebbe fatto pubblicità all’acqua minerale in attesa di quella chiamata dalla sua (ex) società che non arriva mai.


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