Il caso Shalabayeva e il labirinto della giustizia
Ci sono vicende giudiziarie che, nel mettere alla prova l’equilibrio tra norma e interpretazione, finiscono per incrinare la fiducia nella coerenza dell’ordinamento. Il caso Shalabayeva è tra queste. Una storia in cui la giustizia, non dissipa le incertezze, le amplifica, sacrificando all’arida liturgia delle forme un principio dello Stato di diritto, la responsabilità come esito certo, non come oscillazione rituale fra verdetti incompatibili.
Dal caso Shalabayeva al paradosso
Il secondo giudizio d’appello, che condanna dirigenti della Polizia di Stato dopo la precedente assoluzione con formula piena, non riapre soltanto un contenzioso sul merito. Denuncia un sistema che, dopo oltre dodici anni, non riesce a produrre una verità processuale sugli stessi fatti. Un’oscillazione così macroscopica da risultare incomprensibile ai cittadini nel cui nome la giustizia opera, e ancor più ai poliziotti che garantiscono quotidianamente la sicurezza in condizioni operative che nessuna sentenza descrive.
A rendere tutto più amaro è il profilo dei “condannati”, investigatori che hanno scritto pagine decisive delle indagini e della sicurezza pubblica, dirigenti di specchiata correttezza ed etica professionale, tra cui chi ha catturato un capo mafia come Bernardo Provenzano. Professionisti che oggi si ritrovano “condannati” per fatti la cui qualificazione muta da un processo all’altro, come se la procedura fosse un prisma deformante incapace di fissare una verità definitiva.
Il paradosso è evidente. Gli stessi servitori dello Stato che hanno garantito il rispetto della legge si trovano travolti da una giustizia che fatica a rispettare sé stessa. Non è in discussione l’autonomia della magistratura né il dovere di scrutinare ogni atto, è in discussione la credibilità di un sistema che pretende rigore estremo dagli operatori di polizia, ma non sembra custodirlo nelle proprie decisioni. Dove la certezza del diritto vacilla, vacilla anche la fiducia di chi, nelle caserme, vede la legge trasformarsi da strumento di giustizia in un labirinto interpretativo.
Tra i poliziotti serpeggia un’amarezza che sfiora la sfiducia. Il caso Shalabayeva non appare come l’esito limpido di un accertamento, ma come il prodotto di una macchina giudiziaria che confonde sostanza e protocollo, realtà e retrospezione perfetta, vita concreta e formalismo astratto. È questo scarto che ha generato, e da tempo, una frattura tra sicurezza e giustizia difficile da ricomporre. I poliziotti non chiedono immunità e rifiutano ogni scudo penale, ma chiedono che la giustizia, prima di giudicare gli altri, sappia giudicare sé stessa.
Quando l’applicazione della legge dà l’idea di irrigidirsi in un formalismo autoreferenziale, specie se nutrita da dinamiche corporative più attente alla propria autoregolazione che alla realtà concreta, cui la logica del diritto processuale deve corrispondere, a incrinarsi non è solo la sorte contingente di alcuni dirigenti, ma le fondamenta morali su cui poggia la struttura etica dell’edificio istituzionale dello Stato.
Lo ricorda, nel celebre saggio del 1946 sul Diritto ingiusto e diritto sovralegale, il giurista Gustav Radbruch. “Dove la legge tradisce la giustizia, la legge cessa di essere legge”. Da qui la domanda ineludibile, la nostra giustizia è ancora rispondente alla promessa costituzionale?
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