Politica

IL CONGRESSO INVISIBILE

di Fulvio Abbate -

STEFANO BONACCINI POLITICO PAOLA DE MICHELI POLITICO ELLY SCHLEIN POLITICO ©imagoeconomica


Il procrastinato (e procrastinabile) congresso del Partito democratico va ritenuto, percezione alla mano, di fatto un oggetto politico invisibile, men che virtuale. Ologramma di se stesso. Così dai giorni della sua incerta, timida convocazione. Cominciando dal suo simbolico politico assente, altrettanto immateriale. Un tempo, quando i partiti erano davvero tali, i loro congressi, poco importa da quale formazione indetti, restituivano da subito plasticamente l’immagine sontuosa e insieme burocratica della loro tribuna, simile a ziggurat a colpo d’occhio. In seguito, assodato il dato “liquido” degli stessi, restando al caso specifico dei Democratici, l’unica sua percezione visiva mostra nel migliore dei casi il post-it mediatico privato di Twitter. Il resto non è dato, al massimo si avrà un post successivo non meno insignificante.
L’attesa della “resa dei conti”, ossia l’acme del congresso stesso, qualunque possa essere il suo allestimento scenografico, anche questo non ci sarà, non avrà luogo, neppure in presenza di una possibile tribuna, del suo presunto ordinario svolgimento. Resta un deserto dialettico e addirittura formale che induce crudelmente a sognare in nome del fantastico e della sua memoria il ciclopico ritorno delle piramidi e dei templi dorici orditi negli anni Ottanta dall’estroso artista palermitano Filippo Panseca per le assise del Garofano craxiano. O perfino i conciliaboli curiali democristiani tra gli spettrali marmi del Palazzo dei Congressi di Adalberto Libera all’Eur, lo stesso luogo dove Fellini ambientò un obitorio per una scena de “La dolce vita”. Visioni simmetriche.
Detto con spietatezza, che tuttavia serve a restituire il dato oggettivo di una presunta discussione non meno invisibile fin dal suo primo giorno, il congresso del Pd avrà come unica utilità la persistenza dei gruppi dirigenti pregressi, sancirne la proterva e anche un po’ meschina inviolabilità, nient’altro che un’opera di conservazione, sopravvivenza delle singole rendite di posizione, nel silenzio, nell’ormai acclarato disinteresse dei militanti e degli elettori stessi.
Perfino la figura accessoria del “delegato”, tipica d’ogni presepe congressuale, poco importa se nazionale o provinciale, appare adesso accessoria, invisibile a sua volta in questo scenario sospeso; il cartoncino che ne qualifichi ruolo e presenza impossibile da immaginare sollevato al momento della discussione sulle “tesi”. Invisibili da subito perfino le stanze dove le singole componenti, le “correnti” possano riunirsi “in privato” per definire le proprie ragioni, le proprie opzioni, i propri emendamenti, il proprio disappunto, le singole incazzature. Un viaggio a vuoto, per tutti loro. Si spera almeno che i pranzi nelle trattorie intorno al luogo dove l’invisibile congresso avrà luogo possano concedere invece momenti di ristoro, un risarcimento ludico, gastronomico, conviviale; la constatazione del nulla mai davvero messo ai voti.
Alla fine, la sostanza del congresso stesso, sia pure a fronte del precipizio di consensi che investe ora dopo ora l’abisso del Pd verrà commisurato dai cronisti e in prospettiva dagli storici valutandone unicamente i tempi d’attesa, l’espediente narcotico, lo ripeto, affinché si arrivi alla discussione depotenziando ogni possibile resa dei conti, un modo di sopire il dissenso non meno inavvertibile, addormentarne il momento in cui questo possa essere esplicitato.
Pensando a un film di Ettore Scola, “La Terrazza”, dove l’intellettuale organico allora comunista interpretato da Vittorio Gassman approfitta della tribuna congressuale per confessare i propri tormenti privati sentimentali, non si avrà neppure un simile dono di smarrita sincerità accorata. C’erano una volta i congressi, c’era una volta la sinistra.


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