Cultura & Spettacolo

Il Don Carlo alla prima della Scala: la ricetta perfetta di Chailly

di Riccardo Lenzi -


Salta già all’udito nell’introduzione che il “Don Carlo” di Verdi ha un’orchestrazione straordinaria: del resto nel 1884, al tempo del rifacimento scaligero presentato in questa occasione, l’autore era già un compositore maturo, che rifletteva sul passato. “Don Carlo” è anche l’unica opera dove si è accostato al clima decadentistico del secondo Ottocento, arricchendo la psicologia dei vecchi eroi del melodramma con una ricchezza di chiaroscuri che solo una raffinatissima orchestrazione poteva rendere. Infatti la cura e la bellezza del suono evocate dal direttore d’orchestra Riccardo Chailly sono le prima qualità a colpire in questo spettacolo. La sua ricetta pare essere: non è il teatro servo della musica, ma la musica serva del teatro.

Questo significa far vivere i personaggi, dare a ogni scena l’atmosfera che più le compete, raccontare. Facendo così, non umilia la musica d’opera, la sublima, perché la considera per ciò che è, musica per il teatro, musica scritta per animare personaggi, composta per sostenere una trama e una narrazione, che vive gli effetti scenici dall’inizio all’epilogo. Colpiscono persino la sensibilità del neofita i pianissimo e i fortissimo che divaricano i diversi piani di sonorità, come un Riccardo Muti in quest’opera non è mai stato in grado di raggiungere. Il fatto è che Chailly conosce il significato dell’iperbole, l’uso di una figura retorica che consiste nell’intensificare un’espressione esagerando o riducendo oltremisura le qualità di una persona, di una parola o di un suono. L’iperbole è il passepartout che dischiude l’universo del teatro musicale romantico. Francesco Meli, nel ruolo del titolo, è ormai assurto a tenore simbolo del belcanto italiano. Ma la musica di Verdi mette duramente alla prova le sue eloquenza di fraseggio, nobiltà d’accento e abilità vocale. Alla frusta la sua capacità di colorire una frase musicale con una voce che, in fondo, non è ricca di tinte come era quella di Placido Domingo.

Ma la scaltra tecnica gli scioglie il canto e gli dona la necessaria varietà in fatto di chiaroscuri. Anna Netrebko a 52 anni ha ancora una voce oceanica, fiati inesausti, acuti roboanti, seppur incrinati dall’implacabile scorrere del tempo. Ma il problema è il rapporto con il personaggio di Elisabetta, a cui non aderisce perfettamente. Nella Netrebko scorre il sangue ribelle di Tosca e farla entrare nei fragili panni di Elisabetta sarebbe come pretendere che Hieronymus Bosch dipingesse una madonna del Beato Angelico. Mirella Freni ne fu l’interprete ideale: nella sua Elisabetta si rivelavano le ombre del dubbio, le mezze misure, il gusto per la nuance espressiva, l’eleganza del legato. Esibiva gli accenti di una sfuggente e timida sensibilità, che nel “Don Carlo” si contrappone all’imperante opportunismo e all’ambizione politica espressa dagli altri personaggi. Nel ruolo di Rodrigo Luca Salsi è vocalmente padrone del personaggio ed esibisce il suo timbro pieno, con un colore che si impone all’ascolto. Suo intento estetico è dall’inizio della carriera quello di rivoluzionare le concezioni che si sono sedimentate negli ultimi quarant’anni sull’interpretazione verdiana, spesso “gridata”. Il sovvertimento di valutazioni storiche, di repertorio, di tecnica, di gusto interpretativo ai quali Salsi si ispira è una rivoluzione musicologica ancor più che vocale. Punto di partenza, il ripristino di un’emissione pre-verista che apra la strada al ristabilimento d’un fraseggio vario, analitico, teso, attraverso gradazioni d’accento e di colori, non soltanto a realizzare i segni d’espressione dei compositori, ma a dare al significato delle parole il maggior risalto psicologico, attraverso un gioco sottilissimo di contrasti chiaroscurali e di sfumature.

Michele Pertusi è diretto, vibrante, maestoso, dotato di voce ampia e morbida. Ma come Filippo II non ha l’aristocratica, levigata, possanza di un Nicolai Ghiaurov, frutto di una consapevolezza culturale che ben rappresentava un ancient regime paludato. Il cast schierava poi l’eccellente routine di Elīna Garanča come Principessa d’Eboli e Jongmin Park come Grande Inquisitore. Protagonista di non minore rilievo il Coro del Teatro alla Scala diretto da Alberto Malazzi. Nella sua regia Lluís Pasqual mantiene l’ambientazione dell’opera nel sedicesimo secolo. Una grande torre di alabastro ruota e si apre creando i vari spazi: attraverso cancellate scorrono il chiostro del convento, i giardini reali, lo studio di Filippo II, la cerimonia della penitenza degli eretici («Ho tentato di fare vedere sia la prigione in cui vivono i personaggi, sia la presenza della religione che tutto domina»). Il tutto variato per mezzo di luci, in modo da suggerire gli ambienti nei quali si svolgeva l’azione, con frequenti, sottili, sinistre, abbaglianti allusioni alla pittura di El Greco, Goya, Zubarán e Velázquez. Senza compromettere la possibilità di fruire appieno dello sviluppo musicale della vicenda.


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