Attualità

Il furto della speranza

di Redazione -


di Michele Gelardi

Mentre tutti gli osservatori concordano sul fatto che le pensioni dei vecchi sono a carico dei giovani, i quali hanno prospettive previdenziali molto peggiori rispetto ai loro genitori e di fatto subiscono una sorta di furto generazionale di risorse patrimoniali, ben pochi si accorgono di un’altra sottrazione occulta, non meno grave, che chiamerei “furto di speranza”. Le generazioni del dopoguerra e degli anni ’50 e ‘60 erano intraprendenti e coraggiose; quelle di oggi sembrano crogiolarsi nel nulla. Vittorio Feltri ne parla, commentando “le radici del sogno” del napoletano Gianni Lepre: “ci accomuna quel desiderio di farcela, di emergere, di realizzarci, di fare, quella passione e quella speranza che ci hanno condotto a superare ogni ostacolo … non campavamo mica nel Paese dei balocchi. C’era la fame, e insieme a questa c’era la fame di vita. Sia l’una che l’altra non ci sono più. Ahimé, non ci sono più”.
La fotografia è perfetta, ma occorre interrogarsi sulle ragioni di fondo della “diversità” generazionale, altrimenti ci rimane solo la ripetizione dell’eterno ritornello dei laudatores temporis acti: “eravamo meglio noi”. A me pare plausibile che il vero e fondamentale elemento differenziale risieda nell’incidenza della res publica nella sfera della res privata: nei tempi in cui lo Stato lasciava fare ai cittadini, si coltivava la speranza; nei tempi in cui si occupa di ogni anfratto della vita delle persone, non c’è più posto per la speranza. Ovviamente l’odierna invadenza viene giustificata in nome del “bene comune”, annunciato come felicità universale, sicché i due effetti connessi e complementari, dai quali trae origine la miscela della depressione, possono chiamarsi: “obbligo di felicità” e “furto di speranza”.
Dal dopoguerra ad oggi gli apparati burocratici sono cresciuti a dismisura. Nell’Italia odierna, sono numerosissimi i benefattori pubblici; la benigna “tutela” di enti, istituti e autorità di garanzia veglia su di noi; lo Stato educa i suoi diletti figli e provvede ai loro bisogni. Ovviamente non si devono contraddire le indicazioni dello Stato-educatore e dello Stato-provvidenza; le sue cure monopolistiche sono obbligatorie o almeno “calorosamente” raccomandate. Dunque non è il caso di opporsi; sarebbe sconveniente e autolesionistico. La benignità dello Stato si spinge fino al punto da offrirti il bonus per lo psicologo; ti si schiudono le porte della decrescita felice; cosa vuoi di più?
Siffatta felicità di Stato postula che l’uomo-pargoletto, da educare e guidare, sia protetto di fronte ai numerosi pericoli della vita. Ne deriva che tutte le attività umane devono essere sottoposte a rigidi controlli e autorizzazioni preventive. Ogni passo deve essere comunicato al garante di turno, il quale, per garantire, deve conoscere; e, conoscendo, può eccepire e non di rado precludere. La nostra vita di relazione si svolge in mezzo a un numero impressionante di “angeli custodi”, a noi estranei e privi di affectio personale, il cui compito è quello di impastoiare le nostre gambe. Il giovane di oggi non deve contare su sé stesso; la sua intraprendenza deve essere frenata per il suo “bene”. In Italia Steve Jobs avrebbe dovuto smettere prima di cominciare: per inidoneità del suo scantinato all’attività di lavoro; per indeterminatezza del codice Ateco; per mancanza di partita IVA del sognatore; per irregolarità del rapporto di lavoro dell’amico del sognatore; per numerosi altri elementi accessori “non a norma”. Fine del sogno.
Siamo giunti dunque a questo paradosso: ai giovani di oggi è imposto l’obbligo di felicità, ma è sottratta loro la speranza di ricercare la propria felicità.


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