Il già capo di stato maggiore dell'Aeronautica fa punto sui conflitti: dal Medio Oriente all'Ucraina e sui ruoli delle cancellerie internazionali
L’intervista – Parla il Generale Pasquale Preziosa, già capo di stato maggiore dell’Aeronautica e docente di geopolitica e geostrategia
Le parti in conflitto in Medio Oriente stanno ampliando ogni ora che passa il limite di escalation. Le cancellerie internazionali, attonite e sempre in fermento sembrano però non reggere il passo della velocità con la quale si fronteggiano sempre più violentemente.
È una guerra tra Israele e Iran o tra Usa e Iran?
“Tra Israele e Iran, anche se gli Stati Uniti restano coinvolti sul piano strategico ma non ancora operativo. Il conflitto attuale è la conseguenza diretta dell’attacco del 7 ottobre 2024 compiuto da Hamas, il cui impatto ha innescato una spirale di escalation regionale”, a rispondere è il generale Pasquale Preziosa, già capo di stato maggiore dell’Aeronautica e docente di geopolitica e geostrategia. L’ex vertice della nostra forza armata aggiunge: “Israele ha accusato l’Iran di essere il principale sponsor e fornitore di armi di Hamas, della Jihad Islamica, di Hezbollah in Libano e degli Houthi nello Yemen, tutti protagonisti di azioni militari contro Israele. Le radici di questo scontro affondano nella rivoluzione islamica iraniana del 1979, quando l’Ayatollah Khomeini definì Israele il piccolo Satana e gli Stati Uniti il grande Satana, bollando Israele come una costruzione coloniale illegittima da combattere con ogni mezzo”.
Il portavoce delle Forze di difesa israeliana, il generale Effie Defrin, ha dichiarato: “L’operazione é solo all’inizio. Siamo in guerra” e il presidente Donald Trump, su ABC News, ha affermato che “è possibile un loro coinvolgimento”. Una vera escalation?
“La situazione è estremamente delicata. Le dichiarazioni ufficiali israeliane e americane segnano un punto di non ritorno comunicativo, anche se non ancora operativo. Quando un generale israeliano afferma “siamo in guerra” e un presidente americano ammette “coinvolgimento possibile”, significa che siamo entrati in una fase nuova e pericolosa, dove le parole anticipano i fatti. Le parole del generale Defrin non sono retoriche: Israele percepisce ormai l’Iran come un nemico attivo, non più solo indiretto. Dopo decenni di guerra per procura, oggi Israele attacca direttamente obiettivi strategici in territorio iraniano: è un salto qualitativo. L’affermazione “l’operazione è solo all’inizio” indica che Israele non intende limitarsi a un’azione simbolica, ma punta a neutralizzare o degradare la capacità offensiva iraniana (siti nucleari, missilistici, comandi dell’IRGC). Le parole di Trump, invece, aprono una finestra strategica inedita, per ora gli Stati Uniti non sono coinvolti militarmente, ma potrebbero esserlo, se l’Iran colpisse basi americane in Medio Oriente (Iraq, Bahrein, Qatar, Siria), se Israele subisse un attacco su larga scala (missilistico o terroristico), se si aprisse un nuovo fronte (Hezbollah, Yemen, cyber) che destabilizzasse gli alleati americani”.
Ovvero?
“Siamo alle soglie della internazionalizzazione del conflitto. Israele è già in guerra, l’Iran è pronto alla rappresaglia, gli Stati Uniti sono sul bordo del coinvolgimento. La diplomazia è urgente, ma sembra, al momento, debole per fermare il treno della guerra. Occorrono decisioni strategiche fredde e consapevoli, oppure si rischia una guerra regionale a geometria variabile, che potrebbe sfuggire al controllo anche dei protagonisti principali”.
La dichiarazione di AIEA, sostiene che l’Iran non rispettava l’accordo, lanciando dubbi sul fatto che Teheran stesse arricchendo l’uranio per fini militari. Ma non ci sono prove della creazione di una bomba nucleare. Perché questo conflitto?
“Non esistono prove definitive che l’Iran abbia costruito un’arma nucleare, eppure il conflitto è esploso lo stesso. La spiegazione va cercata in una combinazione di percezioni strategiche, diffidenza reciproca e soglie psicologiche superate. L’AIEA ha parlato di non-conformità, non di armamento nucleare. Ha rilevato che: l’Iran ha arricchito uranio fino al 60% (vicino alla soglia militare del 90%); ha impedito ispezioni in alcuni siti sospetti; non ha fornito spiegazioni convincenti su tracce di materiale fissile rilevate in luoghi non dichiarati. L’Agenzia non ha mai affermato che l’Iran stia costruendo una bomba, ma ha sottolineato che le sue attività non sono compatibili con un uso esclusivamente civile dell’energia nucleare”.
Quindi Israele avrebbe attaccato comunque?
“Israele, non aspetta prove definitive: la sua dottrina strategica si fonda sulla prevenzione dell’irreversibilità. “Mai più un’altra Shoah. Mai più in ritardo davanti a un nemico esistenziale.” Per Tel Aviv, bastano segnali tecnici e intenzioni politiche per giustificare l’azione preventiva: arricchimento avanzato, dichiarazioni iraniane minacciose, sostegno attivo a Hezbollah e Hamas. Il conflitto attuale non nasce solo da un allarme nucleare, ma è l’esito di una lunga guerra per procura che oggi si è trasformata in guerra diretta”.
L’Iran fa parte dei Brics. Putin, a colloquio con Trump ha offerto la sua mediazione pur condannando l’attacco di Israele. Il Pentagono invece si è riunito per discutere la richiesta di Israele di intervenire contro l’Iran. Cosa succederà?
“La telefonata tra Vladimir Putin e Donald Trump rappresenta un passaggio chiave nella dimensione geopolitica del conflitto in corso tra Israele e Iran. Il presidente russo ha offerto una mediazione “senza precondizioni”, ribadendo al contempo la condanna dell’operazione militare condotta da Israele contro obiettivi strategici iraniani. Parallelamente, il Pentagono ha convocato una riunione straordinaria per valutare l’eventuale coinvolgimento degli Stati Uniti al fianco di Israele, sulla base di una richiesta formale giunta da Tel Aviv. Si tratta di due sviluppi che, letti congiuntamente, trascendono il livello regionale e restituiscono l’immagine di una crisi in rapido mutamento, sempre più simile a un conflitto sistemico a geometria variabile, dove diplomazia e deterrenza si rincorrono in una dinamica di escalation non lineare. Con l’ingresso nei BRICS, l’Iran ha progressivamente ridotto la propria marginalità internazionale. Non è più un attore isolato, ma parte integrante di un blocco emergente che si propone come alternativa all’ordine liberale atlantico. In questo contesto, la sua proiezione regionale -attraverso Hezbollah, le milizie irachene, gli Houthi yemeniti e Hamas- assume un valore non solo operativo e simbolico, ma anche sistemico e strategico”.
Come vede il ruolo mediatore del Cremlino?
“Putin, offrendo la mediazione, non si limita a difendere Teheran ma afferma implicitamente che ogni attacco contro l’Iran è un attacco all’architettura multipolare che la Russia, insieme alla Cina, intende consolidare. Sul versante opposto, gli Stati Uniti si dichiarano formalmente non belligeranti, ma sono operativamente coinvolti in ogni dinamica strategica israeliana. Il rischio che una reazione iraniana colpisca asset statunitensi nel Golfo o in Siria ha spinto il Dipartimento della Difesa ad anticipare scenari di contenimento, risposta e, se necessario, intervento attivo nel conflitto. Il presidente Trump, pur avverso a nuovi conflitti, ha dichiarato che “nessun nemico potrà sviluppare una capacità nucleare sotto la nostra vigilanza”. Questo potrebbe aprire la strada a interventi selettivi su siti missilistici o centri comando delle Guardie Rivoluzionarie (IRGC), oppure a un conflitto asimmetrico limitato ma formalizzato”.
Quali probabili scenari?
“Allo stato attuale sono ipotizzabili i tre scenari strategici. Il primo dove la Russia e la Cina spingono per un cessate il fuoco condizionato, Israele sospende le operazioni, l’Iran ritira minacce dirette: in questo quadro la diplomazia prevale, ma il conflitto rimane potenzialmente riattivabile. Il secondo con il coinvolgimento degli Usa limitato con interventi con mezzi aerei o cyber per colpire milizie pro-iraniane o proteggere infrastrutture regionali: questo potrebbe essere lo scenario più probabile, ma richiede capacità calibrata di contenimento e de-escalation”.
Il terzo?
“Vedrebbe l’espansione del conflitto (scenario a geometria variabile) Hezbollah, Siria, Iraq e Yemen che diventerebbero teatri attivi. Israele affronta più fronti. L’Iran ricorre a una strategia ibrida. In questo quadro, la mediazione cede il passo a un conflitto esteso, con implicazioni potenzialmente globali. Il conflitto attuale non è più soltanto una risposta israeliana all’attacco del 7 ottobre, né un’azione preventiva contro la minaccia nucleare iraniana. È il punto di convergenza di almeno tre assi: deterrenza esistenziale, proiezione multipolare e confronto tra blocchi. Il conflitto attuale non è più soltanto la risposta israeliana all’attacco del 7 ottobre, né un’azione preventiva contro la minaccia nucleare iraniana. È diventato un punto di convergenza tra tre grandi direttrici strategiche: la deterrenza esistenziale di Israele, la proiezione multipolare del blocco BRICS e il confronto latente tra ordini geopolitici rivali”.