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Il giallo della perizia sulle mascherine cinesi scadute nei depositi

di Rita Cavallaro -


Nell’inchiesta Covid spunta il giallo della perizia sulle mascherine scadute. A pochi giorni dalla chiusura delle indagini della Procura di Roma sulla maxi fornitura di dispositivi di protezione individuali proveniente dalla Cina e gestita nella prima fase della pandemia dall’allora commissario all’emergenza Domenico Arcuri, ora è braccio di ferro tra i pm titolari del fascicolo e le difese degli otto indagati, che rischiano di finire alla sbarra per accuse che vanno, a vario titolo, dalla ricettazione al riciclaggio, dal traffico di influenze illecite in concorso e aggravato dal reato transnazionale agli illeciti in materia di responsabilità amministrativa degli enti.
Tra questi l’ex giornalista Rai Mario Menotti e l’imprenditore Andrea Vincenzo Tommasi, a capo della società di consulenza Sunsky srl. Ma anche Arcuri potrebbe essere imputato nel procedimento, nella doppia veste di vittima del traffico di influenze illecite e di responsabile dell’abuso d’ufficio per aver favorito l’affidamento, del valore complessivo di 1,25 miliardi di euro, a tre consorzi cinesi per l’acquisto di oltre 800 milioni di mascherine di varie tipologia, effettuato con l’intermediazione, non contrattualizzata dalla Struttura commissariale, di alcune imprese italiane. Il vice di Arcuri, Antonio Fabbrocini, in qualità di responsabile unico del procedimento per la struttura commissariale, risponde di frode nelle pubbliche forniture, falso e abuso d’ufficio. Ed è stato proprio l’avvocato di Fabbrocini, Grazia Volo, a sollevare il polverone sulla richiesta di incidente probatorio che la Procura di Roma ha chiesto al gup al fine di cristallizzare una prova fondamentale, ma del tutto dimenticata in questi due anni di indagini: la certificazione sulla conformità dei dispositivi di protezione, quelle mascherine che per l’accusa erano pericolose per la salute, come avrebbero mostrato una serie di analisi di laboratorio controverse ed effettuate in altre regioni.
Peccato che l’incidente probatorio su una questione così tanto importante non sia stato fino ad ora richiesto dai magistrati capitolini e che quei dispositivi di protezione, non appena sequestrati dalla Guardia di Finanza, siano finiti a “marcire” nei depositi giudiziari, diventando oggetto di scandalo quando trapelò la notizia che, solo per tenere nei magazzini la merce requisita in tutta Italia, dal marzo 2020 allo stesso periodo del 2022, lo Stato ha pagato la cifra monstre di un milione di euro al mese. E se alcune di quelle mascherine sono state distrutte per arginare l’incredibile spendita di denaro pubblico, le altre, corpo del reato nei procedimenti in corso, sono ancora lì. Tra quelle proprio i dispositivi di protezione cinesi, al centro dell’inchiesta di Roma. E per liberare il prima possibile i depositi, adesso la Procura ha chiesto la perizia, in modo da cristallizzare la prova della loro pericolosità. L’incidente probatorio, però, potrebbe non essere risolutivo, visto che quelle mascherine sarebbero già scadute l’anno scorso. Non solo. Sulla consulenza tecnica potrebbero influire anche le condizioni in cui sono state conservate le prove. Infatti, nell’istanza presentata dall’avvocato Volo al gup del Tribunale di Roma Mara Mattioli, è fatta richiesta di “modificare e integrare il quesito peritale proposto dall’Ufficio di Procura nella richiesta di incidente probatorio del 15 dicembre 2022”, in modo che si vadano a “ricostruire, considerato il rilevante lasso di tempo trascorso dall’ingresso delle mascherine in Italia, le caratteristiche dei luoghi di custodia e le modalità di conservazione dei dispositivi di protezione individuale oggetto di incidente probatorio”, si legge, “nonché l’eventuale deterioramento degli stessi anche alla luce delle data di scadenza indicata nelle confezioni”.
La difesa chiede che venga accertato “se sia tecnicamente possibile, in termini di attendibilità dell’esito, un’indagine volta a stabilire – ora per allora – l’idoneità all’uso e la capacità filtrante dei detti dispositivi”, che vengano effettuate “le analisi necessarie alla finalità del processo penale nei vari luoghi in cui i suddetti dispositivi si trovano custoditi, sparsi sul territorio nazionale” e se questi “siano idonei all’uso attestato dai certificati che li accompagnano”, tenendo conto “delle conoscenze scientifiche dell’epoca relative alle modalità di trasmissione del virus nativo Sars-Cov2, della normativa emergenziale italiana, europea ed internazionale vigente all’epoca dei fatti, nonché delle linee guida dell’Oms e delle raccomandazioni delle autorità sanitarie internazionali più accreditate”, conclude l’istanza depositata nei giorni scorsi dal legale di Fabbrocini, alla quale si accompagnano le deduzioni della difesa, che punta il dito contro l’anomalia della richiesta di incidente probatorio in questa fase dell’udienza preliminare, anziché in quella delle indagini. La penalista Volo ha precisato al gup che l’esperibilità dell’esame “non è rimessa a una scelta totalmente discrezionale, ma è condizionata alla circostanza che le ragioni di indifferibilità della prova che si intende cristallizzare emergano, per la prima volta, dopo l’esercizio dell’azione penale”. E invece quelle mascherine erano disponibili per essere sottoposte all’incidente probatorio già nei primi mesi del 2021. Dunque perché i magistrati non hanno acquisito allora quella prova? La risposta è scritta nero su bianco nelle deduzioni del difensore del vice di Arcuri: “L’Ufficio della Procura, a quell’epoca, considerava l’ipotesi del reato di frode residuale e probabilmente non rilevante rispetto ad altre più importanti piste investigative, poi abbandonate (corruzione, peculato, ecc.)”. Ma sotto la spinta giudiziaria dell’inchiesta di Bergamo riguardo alle responsabilità del governo e dei tecnici per la mancata istituzione della zona rossa ad Alzano e Nembro e il mancato aggiornamento del piano pandemico, ora i magistrati stanno approfondendo più filoni, per portare alla luce le eventuali frodi. I tamponi d’oro che l’Istituto superiore di Sanità avrebbe pagato 750 euro l’uno quando ne costavano circa 3, i ventilatori introvabili per le terapie intensive e le mascherine bloccate alle dogane di partenza per la corsa al rifornimento. Così l’arrivo a destinazione di 800 milioni di dispositivi di protezione individuali, costati 1,25 miliardi di euro, non può restare impunito.

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